The French Dispatch: recensione del nuovo film di Wes Anderson

Il film uscirà al cinema l'11 novembre con The Walt Disney Company.

Pubblicato il 11 Novembre 2021 alle 14:03

Un film imperfetto ma che trasuda Wes Anderson da tutti i pori e celebra a modo proprio il lavoro del giornalista e di una redazione, sempre con uno sguardo al passato più che al futuro.

Federico Vascotto
Federico Vascotto
2021-11-10T11:49:34+01:00
Federico Vascotto

Un film imperfetto ma che trasuda Wes Anderson da tutti i pori e celebra a modo proprio il lavoro del giornalista e di una redazione, sempre con uno sguardo al passato più che al futuro.

Dopo il rumoroso chiacchiericcio in seguito alla presentazione di Cannes 2021, finalmente arriva al cinema dall’11 novembre con The Walt Disney Company Italia The French Dispatch il nuovo film live action di Wes Anderson in cui il regista mette tutte le proprie ossessioni tanto da diventarne quasi schiavo.

Fin dalla struttura e dall’idea di fondo la pellicola è figlia dello stile elevato all’ennesima potenza del regista: si tratta infatti di quattro storie slegate tra loro ma collegate dall’essere diventate quattro articoli del numero finale di una rivista periodica americana pubblicata in una città francese immaginaria del Ventesimo secolo. Nonostante l’ambientazione moderna, tutto nella messa in scena, nei costumi, nei dialoghi e negli atteggiamenti dei personaggi è deliziosamente retrò e sembra quasi omaggiare la Parigi di Jean-Pierre Jeunet e di Midnight in Paris di Allen.

The French Dispatch: Wes Anderson si perde e si ritrova in Wes Anderson

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Bill Murray and Pablo Pauly in the film THE FRENCH DISPATCH. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

Bill Murray è il direttore della rivista che sta per chiudere, quella del titolo The French Dispatch – si parla addirittura di abbonati che verranno rimborsati – e vuole farlo in grande stile. Lo storico collaboratore di Wes guida un cast che dire ricco di star è poco, forse troppe alla fine dei conti. Si susseguono infatti sullo schermo Benicio del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Frances McDormand, Timothée Chalamet, Lyna Khoudri, Jeffrey Wright, Mathieu Amalric, Stephen Park, Owen Wilson. E ancora Liev Schreiber, Elisabeth Moss, Edward Norton, Willem Dafoe, Lois Smith, Saoirse Ronan, Christoph Waltz, Cécile de France, Guillaume Gallienne, Jason Schwartzman, Tony Revolori, Rupert Friend, Henry Winkler, Bob Balaban e Hippolyte Girardot.

Proprio per tutti questi nomi presenti le storie risultano sbilanciate nell’economia narrativa del film: ad alcune viene dato un maggior spazio e minutaggio rispetto ad altre, e lo stesso vale per gli attori sullo schermo. Questo inficia l’equilibrio e il ritmo del film, che a volte sembra andare troppo in fretta su una delle quattro storie/articoli e altre volte sembra non finire mai.

Proprio come in Grand Budapest Hotel (che però era un capolavoro) l’ossessiva attenzione di Anderson per le inquadrature simmetriche, i colori pastello, la fotografia retrò, i personaggi sopra le righe e le situazioni surreali, raggiungono qui un culmine ossessivo-compulsivo ma questo non intacca la poesia e la dolcezza delle storie raccontate (alcune più di altre però, bisogna dirlo), che sono piene di cuore e non fredde e senza impatto sullo spettatore. Anche l’ironia sbarazzina e quasi indie che ha caratterizzato i suoi precedenti lavori qui non è carente, il film insomma nonostante i difetti diverte ed emoziona dall’inizio alla fine.

Forse è proprio la struttura a episodi di The French Dispatch a non aiutare la coesione narrativa, la fluidità del racconto e l’impatto di tutti i personaggi sul pubblico, ma anche quelli che appaiono troppo poco riescono ad avere un margine di caratterizzazione, margine che ci fa desiderare di lavorare in quella redazione d’altri tempi. Proprio il personaggio di Murray in primis è antitetico rispetto a come viene solitamente mostrato il direttore di un giornale, per di più cartaceo: non il despota-tiranno che non ascolta mai nessuno, anzi un capo che non vuole togliere mai battute ai propri redattori ma preferisce aggiungere pagine, trovando infine i soldi della pubblicità in qualche modo. Uno che addirittura tiene nello staff un giornalista che non ha mai finito di scrivere un articolo. Se non è un adorabile anacronismo questo.

In Breve

Giudizio Globale

7.5

7.5

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