Intervista a Daniela Altomonte: “Adattare Westworld? Un gran mal di testa”
Pubblicato il 15 Aprile 2020 alle 16:00
L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha portato non solo al fermo di molti set di produzioni seriali e cinematografiche, ma anche alla chiusura temporanea degli studi di doppiaggio per ovvi motivi. Molte serie tv stanno quindi andando in onda solamente in versione sottotitolata, oppure sono slittate (trovate l’elenco qui).
Chi però cura i dialoghi e l’adattamento delle suddette serie tv continua a lavorare instancabilmente da casa, in modo che appena gli studi riapriranno potranno rimettersi subito a lavoro. Ce lo ha raccontato per l’occasione Daniela Altomonte, dialoghista di Westworld, tra le serie tv sulla cresta dell’onda in queste settimane, in onda in contemporanea Usa su Sky Atlantic.
Iniziamo da una domanda pratica per chi ci legge. In cosa consiste il mestiere del dialoghista?
La definizione corretta di dialoghista è “dialoghista adattatore cinetelevisivo”. Il dialoghista non è altro che l’autore dei dialoghi per doppiaggio, che non sono una traduzione letterale, ma una vera e propria trasposizione culturale. Io oramai ho 40 anni di esperienza alle spalle e faccio parte della generazione, per così dire, “autodidatta”. Vengo dallo studio delle lingue, ho cominciato da bambina stando al leggio, il che è una fortuna perché sono quelle cose che ti restano nel sangue e non se ne vanno più. Ho acquisito le difficoltà del doppiatore e mi sono servite moltissimo stando poi dall’altra parte. Chi è venuto dopo ha tantissimi strumenti, io mi occupo di formazione da almeno 15 anni, sto insegnando al Master dell’Università di Tor Vergata partito l’anno scorso, e lo vedo costantemente che i tempi sono cambiati.
Hai un tuo metodo personale nell’adattamento?
Pre-formazione era fare tutto da sola, anche perché i prodotti erano completamente diversi, ora sono molto più complessi, devi fare moltissime ricerche perché ogni parola ti apre un mondo e ci potrebbero essere riferimenti a una miriade di cose. Prendi ad esempio il secondo episodio della terza stagione di Westworld e il crossover a sorpresa con Game of Thrones. Gli appassionati di entrambe le serie ne hanno parlato molto sui forum online appositi (ma anche sui social media), prima non succedeva perché internet non esisteva (o comunque non era largamente fruibile come oggi). Il pubblico ora è più colto, più attento, più informato. Il dialoghista ha una responsabilità molto più grossa rispetto al passato. Io sono una dei pochi dialoghisti “puri” nel senso che ad un certo punto ho scelto di fare esclusivamente questo mestiere e lavorare esclusivamente con il sinc, quindi, con film e serie tv, e non reality, documentari o altro tipo di prodotti/programmi.
Com’è tradurre una serie come Westworld rispetto ad altre?
Io sono entrata nella seconda stagione (quindi quella più complicata, ride). Io Ho avuto la fortuna di collaborare da più di dieci anni con il mio “alter ego”, Valeria Giordano, traduttrice e ricercatrice. È il motore del Master dell’Università di Tor Vergata, che ha praticamente creato studiando la sottoscritta per un decennio (ride). È un genio e una fucina di idee. Non lavora quasi più come traduttrice di audiovisivi, ma mi ha accompagnato in questo percorso la scorsa stagione, così come (ha fatto) per la mia collega dialoghista, dato che siamo in due a curare i dialoghi di Westworld.
Valeria è molto accurata nell’offrirti delle soluzioni di traduzione, poi subentriamo noi dialoghisti ai traduttori e ci scontriamo con la recitazione, le velocità, e tanti altri elementi. La professoressa Valeria Giordano ha condotto un progetto di ricerca sullo studio dei dialoghi di Game of Thrones e infatti stiamo ancora ridendo per il crossover a sorpresa. È stata lei ad insegnarmi a lavorare con un traduttore e ne sono ben felice perché non c’è più il tempo di fare tutto da soli.
Sono cambiati i tempi di adattamento rispetto a prima? Indicativamente in quanto si svolge il tuo lavoro per un episodio?
Il doppiaggio si è fermato ma noi dialoghisti continuiamo con le consegne nei tempi previsti. 7-8 giorni di tempo per consegnare il nostro lavoro che servirà a fare (per il momento) i sottotitoli, creati partendo dal nostro adattamento. I tempi sono ancora più stretti rispetto al passato, purtroppo. Io ho lavorato per anni con la Rai con prodotti come E.R., Cold Case, Senza Traccia. Prima si lavorava sul “magazzino”, termine pseudo-tecnico, nel senso che non si andava in quasi contemporanea o contemporanea come adesso, e non esistevano i servizi di streaming che pubblicano le stagioni interamente, quindi, i tempi di adattamento, così come quelli di doppiaggio, si sono drasticamente ridotti. È anche vero che senza adattamento in sala di doppiaggio non possono fare nulla (ride).
Ha influito / Influirà sul tuo lavoro questa situazione venutasi a creare?
Per fortuna, prima che scoppiasse la quarantena forzata, io avevo già ricevuto la consegna, oltre che di Westworld, anche delle terze stagioni di Absentia (da noi su Amazon Prime Video, ndr) e Siren (su Rai4, ndr). In realtà, la mia quotidianità non è cambiata, perché lavoravo in smart working già da prima e soprattutto in tempi di consegne, la clausura davanti al pc la conosco. Magari non si può prendere l’aperitivo a fine giornata con gli amici, ma per il resto il dover lavorare da sola non mi spaventa. Anzi, c’è una sorta di “quiete” dato che non ci sono fattori esterni che possono venire a disturbarti a casa.
C’è una serie del cuore tra quelle che hai curato o un adattamento di cui sei particolarmente fiera?
Io li ho amo un po’ tutti i miei lavori perché sono così diversi l’uno dall’altro, sono come dei figli o degli animali domestici. Ce ne sono due per cui vengo particolarmente ricordata (e sembra che abbia fatto solo quelli, ride): E.R., che ha creato uno spartiacque fra la serialità di prima e di dopo, e Pollon. Sono anche molto affezionata al primo adattamento della serie La Femme Nikita di fine anni ’90, tratta dal film di Luc Besson, che ha coinciso con l’avvento di Internet. Cominciavano ad esserci i primi siti e fan club italiani e ricordo che mi invitarono alla quarta e ultima convention di Nikita in Canada, nel 2001, per andare a parlare del doppiaggio italiano, un’esperienza divertentissima e molto emozionante. Ero in contatto con tutti i protagonisti oltre che con i fan, una cosa quasi surreale. I miei lavori mi sono tutti rimasti comunque nel cuore… o nel fegato, perché ci sono state delle serie così complicate da adattare (ride), come le sitcom per esempio, in cui ti scontri con gli scogli della velocità della lingua e della resa della battuta.
Infine, un consiglio per chi volesse fare il tuo stesso mestiere dopo aver letto magari quest’intervista?
La prima cosa che dico ai ragazzi quando faccio formazione è “questo è un mestiere per poca gente” (ride). Sembra un giudizio severo, ma è importante innanzitutto capire in cosa consiste esattamente questo lavoro. Ci sono molti più prodotti di un tempo, come i reality. C’è tutta una branca nuova e molto interessante, che è quella dell’accessibilità (come l’audiodescrizione, a metà strada fra il lavoro di sceneggiatore e di dialoghista), ma allo stesso tempo c’è una concorrenza spietata. Ci sono i sottotitoli per non udenti. Esistono addirittura sottotitoli che interagiscono con il film a tal punto che alcune produzioni vengono contattate prima e ci si mette d’accordo per creare delle scene che siano più facilmente sottotitolabili.
Ci sono libri e testi importanti anche a livello universitario riguardo il mestiere del dialoghista, che non mette in atto una “semplice” traduzione, ma tiene conto di tantissime cose, devi metterci il cuore, non basta sapere l’italiano correttamente. Devi avere naso, devi essere veloce, sapere trovare soluzioni creative, far ridere e far piangere, in modo che il doppiatore possa fare al meglio il proprio mestiere e permettendo allo spettatore di godersi il prodotto finito, senza i cosiddetti “cazzotti nelle orecchie”. Bisognerebbe avere il tempo tornarci dopo un paio di giorni e valutare il proprio adattamento, ma purtroppo i tempi come dicevamo sono strettissimi ora: magari io, rileggendo un adattamento della settimana scorsa, gli darei fuoco (ride). In Italia purtroppo non c’è la cultura di questo mestiere. E ovviamente serve passione, senza la passione non si può fare il dialoghista.