I 12 migliori film del decennio 2010-2019
Pubblicato il 27 Luglio 2019 alle 12:00
Riassumere dieci meravigliosi anni di meraviglioso cinema in un solo articolo è un compito abbastanza arduo, soprattutto per chi come noi fa questo mestiere navigando al ritmo di due-tre (a volte anche oltre) pellicole giornaliere, ma il decennio 2010-2019 sta volgendo al termine ed è giusto profondersi in questo ultimo, piccolo grande sforzo per salutarlo come si deve, rivivendolo attraverso i migliori esemplari d’arte cinematografica che ad esso saranno per sempre legati.
Al termine della spietata, incontestabile (si fa per dire) e soggettivissima top 12 (spoiler: sono poche le cose oggettive in questo universo, ma fra loro senza alcun dubbio manca la critica cinematografica) vi rimandiamo anche ad alcune menzioni speciali per opere che a malincuore sono rimaste fuori dai posti d’onore, e che troverete alla fine dell’articolo.
Bone Tomahawk di S. Craig Zahler (2015, USA, UK)
La palma del miglior b movie del decennio va all’atipico Wester dell’atipico S. Craig Zahler, iconoclasta regista-sceneggiatore-romanziere-musicista che nel corso di una manciata di anni si è imposto come vero e proprio John Carpenter del XXI secolo: come l’autore-maestro di Halloween Zahler si diverte a reinventare i generi secondo la sua visione, visione che ruota ruota intorno a uomini duri guidati da codici morali rigorosi che per un verso o per un altro finiscono sempre per prendere la decisione peggiore possibile, scatenando un ineluttabile e perverso gioco al rilancio in cui tutto diventa sempre più ingestibile e asfissiante. Prima fatica del regista, Bone Tomahawk è un film che intrappola soverchia schiaccia uccide, un’opera brutale che attraverso una messa in scena pazzesca manifesta senza ghirigori o fronzoli la volontà di andare dritta al punto senza fermarsi a tirare il fiato o a riflettere.
The Tree of Life di Terrence Malick (2011, USA)
Palma d’Oro a Cannes 2011 per il capolavoro impressionista di Terrence Malick, che con metafisico ingegno si muove in uno stato di trance onirica fra il microcosmo della media borghesia statunitense e il macrocosmo dell’universo, mostrando la nascita della vita e l’inesorabile incombere della morte in tutte le sue forme, sfociando in una fantasmagoria di continua alternanza fra terreno e ultraterreno. Talmente mastodontico da finire con lo schiacciare sotto il suo peso lo stesso Malick, che da allora non si è più distaccato dal linguaggio sinestetico creato grazie alla sognante fotografia di Emmanuel Lubezki, riuscendo solo a creare film foto-copia barra imitazione che di questa immensa visione non valgono un fotogramma.
Avengers: Infinity War di Anthony e Joe Russo (2018, USA)
Se Avengers: Endgame è lo champagne stappato a fine gara con tanto di coppa da sollevare, Avengers: Infinity War è l’incredibile e insperato sorpasso all’ultima curva, il gol in contropiede negli ultimi cinque minuti, il gancio destro un secondo prima della fine dell’ultimo round: nichilismo fatto cine-comic, l’opera dei fratelli Russo racchiude in maniera sia insperata che ispirata l’epopea Marvel Cinematic Universe all’intero di una produzione mastodontica e tentacolare, con sei MacGuffin hitchcockiani travestiti da Gemme dell’Infinito che ci trasportano fino ai confini più remoti ed inesplorati dell’universo di Kevin Feige, in compagnia di tutti i supereroi che si possono desiderare. Nella narrazione la costruzione di un racconto è sempre più avvincente della sua risoluzione, ed Infinity War è l’ennesima conferma di una regola già ampiamente dimostrata da L’Impero Colpisce Ancora e Le Due Torri: immenso e irraggiungibile, mette in scena l’estremo potenziale del cine-comic, spingendosi così in là che per andare avanti gli stessi Marvel Studios hanno dovuto annullarne gli effetti retroattivamente col capitolo successivo.
The Wailing di Na Hong-jin (2016, Corea del Sud)
Avrete notato che i giustamente incensati e magnifici The VVitch e It Follows sono stati ahinoi rilegati nella sezione “menzioni d’onore”, e già solo questo dettaglio dovrebbe bastare per farvi un’idea della grandezza dell’offerta horror di The Wailing: conosciuto in Italia come Goksung – La Presenza del Diavolo (dal titolo originale sud-coreano Gok-seong) il film è una storia inquietante e oscura sul male, raccontata con incredibile dovizia di particolari dal regista-sceneggiatore Hong-jin Na (qui soltanto al suo terzo film dopo The Chaser e The Yellow Sea). Intrisa di pessimismo e permeata da un intenso e nauseante presentimento di malignità, la pellicola gode di una spettacolare atmosfera che mescola folkore, xenophobia, paranormale e crudo, realistico orrore, che butta in faccia allo spettatore ogni singola sfumatura e sotto-genere dell’horror attraverso una sceneggiatura spaventosamente coerente. Con una vivida ambientazione naturalistica, The Wailing sconquassa le aspettative del suo pubblico, e nel finale da brividi si permette perfino di giocare con l’iconografia del Maligno, proponendone la propria versione.
La Vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013, Francia, Belgio, Spagna)
Quattro anni prima di lanciarsi anima e corpo nell’ambizioso progetto da dodici ore in tre film di Mektoub (ad oggi sono usciti solo Canto Uno e Intermezzo), il controverso autore tunisino naturalizzato francese Abdellatif Kechiche aveva già realizzato il suo film più bello, profondo e ammaliante: La Vita di Adele è un capolavoro di ardore, concupiscenza, empatia e umanità, capace nelle sue tre ore di narrazione di trascinarti nel corpo di un’altra esistenza, di farti sentire i sentimenti di un’altra persona e di farti vivere le sue esperienze. Adele da personaggio diventa persona e i suoi drammi e le sue gioie diventano quelle del suo pubblico, che non la dimenticherà mai.
Gravity di Alfonso Cuarón (2013, UK, USA)
Esorbitante metafora sull’assimilazione del lutto e la tanto conseguente quanto insperata rinascita dall’abisso nero dello spazio profondo del dolore, Gravity di Alfonso Cuarón è un capolavoro che fluttua tra dramma e avventura spaziale, e che sa essere insieme intimo e spettacolare, gigantesco come un pianeta intorno al quale orbitare e piccolissimo come la più flebile delle speranze cui aggrapparsi, freddo e silenzioso come l’universo o caldo e ospitale come il ventre amorevole di una madre. Una delle esperienze cinematografiche più viscerali, entusiasmanti e coinvolgenti mai realizzate.
Vizio di Forma di Paul Thomas Anderson (2014, USA)
Si può discutere su quale sia il capolavoro massimo di Paul Thomas Anderson in una carriera fatta solo di capolavori, ma a costo di sembrare impopolari è su Vizio di Forma che decidiamo di puntare: per quanto insospettabile e molto meno celebrato rispetto alle altre opere del suo autore il noir con Joaquin Phoenix è un sortilegio filmico (c’è proprio un personaggio chiamato Sortilège), un flusso di coscienza tra James Joyce e Raymond Chandler costantemente sballati dai fumi dello stoner movie: nel film Anderson sembra dilatare il tempo togliendolo dall’equazione, tutto accade in una dimensione malleabile di paranoia e sesso (che non viene mai mostrato a livello grafico ma che allo stesso tempo è ovunque), capisaldi di un mondo malizioso e sexy che non è affatto né malizioso né sexy ma lo sembra sempre; Vizio di Forma, un’opera praticamente unica nel suo genere, incredibilmente dà corpo filmico ad un sentimento, quel senso di represso desiderio che lo spietato scorrere del tempo si sta portando via e che nel presente sembra irraggiungibile, perché ormai sepolto nel passato … che poi è l’essenza stessa del noir.
The Assassin di Hou Hsiao-hsien (2015, Taiwan, Cina, Hong Kong)
Liberamente ispirato a una storia scritta dallo scrivano della dinastia Tang, Pei Xing, The Assassin impiega un rigore formale che decentra la narrazione dal suo ruolo di fulcro, puntando tutto sulla ricostruzione storica: le distanze di posizionamento della telecamera conferiscono alle immagini un’aura pittorica, e l’attenzione per il perfezionismo della messa in scena bada a che ogni singolo dettaglio sia sempre al suo posto, come se una minima assenza o la più impercettibile inesattezza – che sia essa il panneggio di una tenda, o al foglia di un albero – rischiasse di causare il collasso di tutto il film. Il maestro della nouvelle vague taiwanese Hou Hsiao-hsien riesce a cogliere – incredibilmente – la forza espressiva e vigorosa della quiete, ossimoro che implicitamente nasconde in potenza tutta l’esplosività dell’azione. The Assassin segue il movimento intuitivo e fluido dei corpi attraverso lo spazio cinematografico, imprimendolo nel fotogramma come alla ricerca di un tempo ipnotico che non può esistere nella realtà, ma solo nello schermo.
Dunkirk di Christopher Nolan (2017, UK, Olanda, Francia, USA)
Einsteniano per come modella il tempo in fase di montaggio, Dunkirk è il grande capolavoro di Christopher Nolan, un autore che fra alti e bassi probabilmente più di ogni altro in questo decennio (ma anche prima) ha polarizzato il cinema mainstream nord-americano. Con la sua personale ricostruzione storica-cinematografica dell’omonima battaglia-evacuazione della Seconda Guerra Mondiale, il regista britannico realizza il war-movie più originale dai tempi di Orizzonti di Gloria (prima) e Salvate Il Soldato Ryan (poi), creando una strana forma ibrida fra i due lavori che è diversa da entrambi e che finalmente gli permette di ribaltare il grande paradosso della sua carriera, quella doppia anima che da sempre lo divide fra Stanley Kubrick e Steven Spielberg, impedendogli di arrivare a quei livelli. Ci arriva con Dunkirk, un’opera epica di puro relativismo che cancella la grammatica cinematografica del film di guerra per inventarne una tutta sua.
Solo Dio Perdona di Nicolas Winding Refn (2013, Danimarca, Francia, Belgio, USA, Svezia)
Capolavoro espressionista che comunica tutto ciò che ha da dire attraverso ermetismi ed estremismi, Solo Dio Perdona prendere paradigmi freudiani mescolati alla favola nera e alla tragedia di William Shakespeare per portarli nei territori dello spaghetti western, i film di samurai e il kung-fu movie: Nicolas Winding Refn sfida il suo pubblico e lo inganna, vestendosi da b-movie ma parlando il linguaggio del cinema art-house più aulico e inaccessibile, guardando tutto attraverso una visione estatica che fa dell’estetica l’unica regola di un mondo senza regole.
La La Land di Damien Chazelle (2016, USA)
La La Land è il Via Col Vento della nostra generazione, è il film di cui i cinefili e gli innamorati del XXII secolo parleranno ripensando ad un’epoca che non hanno mai vissuto ma che ameranno rievocare: è lo stesso che accade agli spettatori del secolo corrente in relazione a quello passato, grazie al lavoro meticoloso di recupero – a livelli di venerazione – col quale Damien Chazelle (ri)mette in scena i cento anni di cinema col quale è cresciuto; lo fa attraverso la sua frizzante ottica moderna, con una camera elegante e sinuosa al servizio di idee visive vibranti e sgargianti che si muove al ritmo di una colonna sonora indimenticabile. La sceneggiatura nostalgica, divertente, romantica e a tratti brutale si conclude con un colpo di scena finale necessario a lanciare la coda, una sequenza-chiosa di quasi dieci minuti che è impossibilmente più bella di tutto il film messo insieme.
Mad Max: Fury Road di George Miller (2015, Australia, USA, Sud Africa)
Generalmente nel cinema action il momento dell’azione è uno slancio, una spinta d’adrenalina che accelera e poi si ferma per fare una paura prima di ripartire, una formula che si ripete fino al climax finale cui seguono i titoli di coda. Ecco perché Mad Max: Fury Road è così incredibilmente unico nella sua totale onnipotenza scenica: ignora completamente la formula di cui sopra sostituendo a più scatti repentini una maratona continua ed incessante, una corsa con la morte alle calcagna cui partecipano personaggi sia drammaticamente profondi sia metaforicamente eletti a simboli di una società (la nostra) che nel mondo del film è decaduta da tempo, ma che ancora riesce a riflettere tutte le nostre speranze, i nostri orrori, i nostri vizi e le nostre follie. Non esiste niente come Mad Max: Fury Road nella storia del cinema, George Miller lo ha inventato nel 2015 e da allora stiamo ancora aspettando di scoprire dove ci condurrà quell’infinita strada desertica, a quanto pare pronta a snodarsi in ben tre sequel.
Menzioni speciali (in ordine sparso)
- An Elephant Sitting Still di Hu Bo (2018, Cina)
- It Follows di David Robert Mitchell (2014, USA)
- Prometheus di Ridley Scott (2012, USA)
- Whiplash di Damien Chazelle (2014, USA)
- Lady Macbeth di William Oldroyd (2016, UK)
- The Handmaiden di Park Chan-wook (2016, Corea del sud)
- Civiltà Perduta di James Gray (2016, USA)
- Mission: Impossible – Fallout di Christopher McQuarrie (2018, USA)
- Argo di Ben Affleck (2012, USA, UK)
- What We Do In The Shadows di Taika Waititi (2014, Nuova Zelanda)
- First Reformed di Paul Schrader (2017, USA, UK, Australia)
- ROMA di Alfonso Cuarón (2018, Messico, USA)
- The VVitch di Robert Eggers (2015, USA, Canada, UK)
- Personal Shopper di Olivier Assayas (2016, Francia, Germania, Repubblica Ceca, Belgio)
- First Man di Damien Chazelle (2018, USA)
- Il Filo Nascosto di Paul Thomas Anderson (2017, USA, UK)
- La Talpa di Thomas Alfredson (2011, Francia, UK, Germania)
- Un Affare di Famiglia di Hirozaku Kore’eda (2018, Giappone)
- Drive di Nicolas Winding Refn (2011, USA)
- A Proposito di Davis di Joel e Ethan Coen (2013, USA, Francia)
- Skyfall di Sam Mendes (2012, UK, USA)
- La Forma dell’Acqua di Guillermo del Toro (2017, USA)