Serenity – L’Isola dell’Inganno di Steven Knight | Recensione
Pubblicato il 19 Luglio 2019 alle 15:00
Il film è disponibile nelle sale italiane.
Titolo originale: Serenity
Durata: 106 min.
Genere: noir, drammatico, thriller
Regia: Steven Knight
Sceneggiatura: Steven Knight
Cast: Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jason Clarke, Diane Lane, Djimon Hounsou, Jeremy Strong, Robert Hobbs, Garion Dowds, Kenneth Fok
Produzione: Global Road Entertainment, IM Global, Shoebox Films, Starlings Entertainment
Distribuzione: Lucky Red con Universal Pictures
Data di uscita: 18 luglio 2019
Li avevamo lasciati nell’immensità dello spazio profondo a farsi domande sui buchi neri e ad indagare i misteri dell’universo in Interstellar di Christopher Nolan, i nostri Matthew McConaughey e Anne Hathaway, che adesso letteralmente dalle stelle li ritroviamo nelle stalle di Plymouth, un’isola simil-cubana quasi più remota di quel Gargantua i cui effetti speciali dominavano la parte migliore dello sci-fi del 2014.
C’erano pessimi dialoghi sull’amore in quel film di esplorazione spaziale fatto in larga parte di pessimi dialoghi (i peggiori probabilmente della carriera dei fratelli Nolan, e infatti il maggiore dei due per il suo film successivo avrebbe preferito tacere per gran parte del tempo sfornando il suo capolavoro), ed è ironico che un grande paroliere come Steven Knight, in questo Serenity – L’Isola dell’Inganno metta in bocca a McConaughey, in un confronto proprio con la Hathaway: “Non farmi ridicoli discorsi sull’amore!”.
Di ridicolo purtroppo nel nuovo film di Knight ce n’è in abbondanza: alla sua terza regia dopo il buon Redemption e il bellissimo Locke, l’esperto sceneggiatore cade vittima di un’ambizione smodata e realizza un fiasco gigantesco che commette l’errore imperdonabile di prendersi incredibilmente sul serio.
Lo fa attraverso dialoghi sempre affilati e incredibilmente sapienti (ma Knight è una garanzia da questo punto di vista), che però stonano tantissimo con tutto il resto: non c’è uno straccio di convinzione in quello che succede a schermo, tutto è giocato in bilico fra il realismo di ciò che dicono i personaggi e i modi di fare parossistici attraverso i quali lo dicono, muovendosi di fronte ad una messa in scena iperbolica che rischia di scoprire le carte in vista del colpo di scena alla fine del secondo atto (basta un occhio attento, comunque, per fiutarlo già dai primi minuti, proprio per come Knight incastra le scene e i personaggi mettendoli in relazione con montaggi e riprese).
Più che aver qualcosa da dire Serenity sembra il classico film nato da un colpo di scena, un solo twist che Knight ha pensato potesse essere interessante e che ha deciso di abbellire con una storia a corredo.
Di Interstellar – e la cosa fa abbastanza ridere – c’è anche la corsa su pick-up azzurro nel campo di mais con le lacrime agli occhi di McConaughey, ma la fotografia accesa e la tendenza dell’attore a restare nudo ricorda non tanto il mondo catastrofico e grigio del film di Nolan quanto Tutti Pazzi Per L’Oro (un film comunque molto più onesto e divertente di questo, in cui il protagonista è una sorta di moderno hemingwayano che non fa che bere ai bar e urlare al cielo e lanciarsi dalle scogliere per farsi una doccia). Si strizza l’occhio – soprattutto all’inizio – a Lo Squalo di Spielberg, dal 1975 una tassa da pagare per ogni film girato in mare e a bordo di una barca, ma siamo dalle parti del noir sotto il sole tipo Ombre Malesi, Le Catene della Colpa e perfino Casablanca, con in mezzo un meccanismo narrativo che rimanda ora allo spreco di buone idee tipico di un brutto episodio di Black Mirror, ora all’anima caricaturale di Chi Ha Incastrato Roger Rabbit? (il personaggio di Anne Hathaway ricorda non poco una Jessica Rabbit dalla chioma bionda, ma è doppiamente ridicola perché inconsapevolmente ridicola).
Non è che non ci siano spunti interessanti – è simpatico come i monologhi di McConaughey riecheggino l’uso della voce fuori del campo tipica del noir, e le scene di sesso, un vero fiore all’occhiello nelle sceneggiature di Knight, lui che conferisce loro sempre un significato più ampio e nascosto, sono coinvolgenti come al solito – ma non è mai chiaro se l’intero film si stia prendendo in giro da solo, o se stia prendendo in giro lo spettatore: in sostanza, Serenity ha sia quel retrogusto insipido da parodia auto-indulgente che fa di tutto per non esserlo, sia quello ancora peggiore del thriller che si crede incredibilmente sofisticato quando invece non lo è affatto.
In Breve
Giudizio Globale
4.5