Toy Story 4: la più importante opera Pixar dai tempi di Wall-E

Pubblicato il 28 Giugno 2019 alle 12:00

La Pixar Animation Studios, fin dalla sua nascita con Toy Story – diretto da quello che sarebbe diventato una figura chiave dello studio, John Lasseter – è sempre stata focalizzata nella produzione di film per tutta la famiglia, seguendo una filosofia per la quale con opere “per tutta la famiglia” si intende opere per tutti: pensate per tutti, rivolte a tutti, in grado di parlare a tutti.

Queste storie dal concept incredibilmente mirato eppure così inclusivo, accessibili a chiunque nella loro universalità, categoricamente sviluppate attraverso una costante e progressiva innovazione tecnologica (mai dimenticare che la nascita della Pixar coincide con la nascita dell’animazione digitale) che è l’essenza stessa del cinema, potrebbero trovare un paragone sensato solo nel posto paradossalmente più distante del mondo per longitudini e latitudini sia geografiche che d’industria, ossia in quello Studio Ghibli che dalla Terra del Sol Levante aveva iniziato a fare la stessa cosa ma seguendo stili e modelli produttivi completamente opposti: il punto non è realizzare film per bambini, il punto è realizzare opere cinematografiche totalizzanti che contengano di tutto, che parlino dei massimi sistemi ma col sorriso, in maniera spensierata, strutturando l’impianto filmico su più strati in modo tale che ognuno di essi parli ad una specifica fetta di pubblico; il tutto contenuto in un discorso narrativo coerente che si traduca in una storia ben amalgamata e bilanciata, impostata per essere decifrata diversamente a seconda dei mezzi e/o delle capacità interpretative a disposizione di ciascun individuo.

In questo modo di fronte ad un’opera immensa come Wall-E, la migliore fra le fatiche della Pixar a livello artistico e narrativo, bambini e adulti di ogni età razza e sesso troveranno qualcosa di diverso, qualcosa che parli solo a loro, e forse con Toy Story 4 lo studio d’animazione – oggi guidato da Jim Morris e Pete Docter – è riuscito a ricreare quella complessità di stratificazione narrativa che contraddistingueva il film del 2008 scritto e diretto dal pluri-premio Oscar Andrew Stanton (non a caso sceneggiatore di questo quarto capitolo della saga di Woody e Buzz): al di là del solito, incredibile dinamismo della messa in scena (soprattutto nelle sequenze action) e del visionario comparto tecnico avanti anni luce rispetto agli standard odierni (è impensabile che nello stesso anno, anzi a pochi giorni di distanza, siano arrivati nei cinema di tutto il mondo Pets 2 e Toy Story 4), il film di Cooley ancora una volta dimostra come la Pixar sappia strutturare le proprie opere su più livelli, con gag pensate per far ridere i bambini che nascondono sotto-testi umanisti che catapultano i genitori di quegli stessi bambini nelle menti dei giocattoli, a loro volta degli pseudo-genitori per i loro proprietari/figli da accudire, da veder crescere, da veder andare via.

Ma se con Wall-E per la prima volta il cinema d’animazione non si limitava a replicare quello live-action ma stabiliva degli standard che tutto il cinema di fantascienza (in una sorta di fase di transizione all’epoca) avrebbe seguito (ci riuscì reclutando per la sua troupe alcune delle personalità artistiche più importanti di Hollywood, come il direttore della fotografia Roger Deakins e l’effettista Dennis Muren, che dagli anni ’70 aveva collaborato con Steven Spielberg, George Lucas e James Cameron in praticamente tutti i film che vi possono venire in mente pensando a quesi tre registi), Toy Story 4 negli standard del cinema attuale ci si butta a capofitto, contando sul concetto di saga-franchise in eterna espansione che invece il film di Stanton non considerava minimamente.

Oggi come dieci anni fa in pratica la Pixar dimostra di conoscere/saper leggere meglio di chiunque altro i flussi dell’industria e soprattutto di saperli cavalcare con classe, piegandoli alla propria volontà: ieri la fantascienza post-Matrix aveva bisogno di un rilancio, e quel rilancio avvenne con Wall-E; oggi che tutto è franchise, che tutto rinasce da saghe del passato rilanciate con nuove iterazioni, ecco Toy Story 4.

Quel 4 nel titolo è del tutto superfluo: è rivolto al pubblico di ieri ma il film è concepito per permettere a quello di oggi di entrare in sala e godersi una storia del tutto nuova, una storia che ha il sapore di un rilancio in vista di nuove iterazioni (qualcuno ha detto Disney+?), una sorta di western-revisionista diverso da tutto quello che i tre capitoli precedenti ci avevano mostrato (perfino nella colonna sonora, che sembra quella di un film della Hollywood Classica).

Si definisce sequel ma è un nuovo punto di partenza, come ogni sequel che si rispetti allarga a dismisura il mondo del capitolo precedente ma in perfetto stile da industria hollywoodiana spiana la strada a ciò che verrà. E’ quel finto evento finale alla Endgame che saluta in modi diversi, tra addii definitivi e nuovi benvenuti: è il cinema totale che la Pixar insegue da sempre, che va in ogni direzione allo scopo di dover arrivare dappertutto e la convinzione anche sfacciata di potercela fare.

L’immagine più bella del film – Woody e Bo Beep davanti ad un proiettore in pellicola impolverato – sembra voler racchiudere tutto questo e comunicarlo senza dirlo, in maniera silenziosa, con la classe che da sempre contraddistingue la filmografia Pixar.

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