Il Nome della Rosa: Parte 1 | Recensione

Pubblicato il 5 Marzo 2019 alle 15:30

Dopo il riadattamento nel celeberrimo film omonimo del 1986 diretto da Jean-Jacques Annaud, il romanzo di Umberto Eco datato come la sottoscritta 1980 è stato scelto come soggetto sul quale basare la nuovissima mini serie televisiva in onda in Prima TV Assoluta per quattro lunedì di seguito a partire da ieri sera su RAI1.

Il Nome della Rosa è stato il primo romanzo mai scritto dal celebre semiologo italiano nel 1980. Si tratta di un giallo e di un thriller storico ambientato nel lontano XIV secolo che riporta le memorie dell’ormai anziano Adso da Melk, che decide di raccontare le inquietanti e misteriose vicende di cui fu protagonista molti anni prima, quando era solo un giovane novizio benedettino:

Il Nome della Rosa è la seconda serie televisiva di produzione italiana più venduta in tutto il mondo dopo Gomorra, grazie al fatto che sia stato venduto già a ben 12 Paesi. Per quanto riguarda invece le suggestive ambientazioni della serie, le riprese sono state girate in larga parte in Abruzzo, con una capatina a Vulci, nel Lazio, mentre invece i luoghi chiusi come i chiostri e le chiese sono stati ricostruiti all’interno degli studi di Cinecittà, a Roma.

STAT ROSA PRISTINA NOMINE, NOMINA NUDA TENEMUS

La celebre frase conclusiva del romanzo di Umberto Eco è una variazione di un verso del monaco benedettino Bernardo Cluniacense e che letteralmente vuol dire: “La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”; le interpretazioni di questa frase sono molteplici, ma in breve potremmo dire che significa che di tutto ciò che esisteva un tempo e ora non è più, tutto ciò che ci resta sono i soli nomi, ormai svuotati del loro significato. Una chiusura dalla visione pessimistica, che deriva da una presa di coscienza dell’ora saggio Adso.

Il romanzo di Umberco Eco è intriso di riferimenti storici, letterari e filosofici, che stimolano i lettori a una riflessione profonda non solo sui fatti narrati, ma sulla vita e il suo significato in generale, e questo costituisce senza dubbio parte del fascino di questa opera immortale, la cui narrazione affascina ancora oggi, a distanza di quasi 40 anni dalla sua prima pubblicazione.

Le aspettative nei confronti di questa nuova trasposizione dell’opera di Umberto Eco erano in gran parte una via di mezzo fra la curiosità e la diffidenza, per via dell’inevitabile paragone con il film Il Nome della Rosa. Tuttavia, è opportuno specificare che non sarebbe opportuno effettuare un simile confronto per una serie di motivazioni: innanzitutto, di questa serie abbiamo potuto vedere fino a questo momento soltanto una puntata, per cui giudicare l’opera nella sua interezza attualmente risulta del tutto impossibile; inoltre, stiamo parlando di media differenti (film e mini serie televisiva), con tempistiche e dinamiche differenti (126 minuti del film contro 400 di questa serie) che comportano anche scelte narrative differenti; anche il periodo storico in cui le due trasposizioni sono state create è diverso (gli anni ’80 del ‘900 per il film, il XXI secolo per la serie), come lo è, naturalmente, il cast.

Per questo motivo, ho deciso di limitare i paragoni fra le due produzioni alle performance degli attori protagonisti di questa lugubre storia ambientata all’interno di una abbazia benedettina nel 1327.

PENITENZIAGITE!

Guglielmo da Baskerville è un frate francescano e la performance nel film di Sean Connery ha reso questo personaggio incisivo e memorabile; ora, è John Turturro a vestire quegli stessi panni, conferendo al personaggio una dimensione introspettiva e riflessiva che ben gli si addice;

Ebbene, Guglielmo, insieme al novizio benedettino Adso da Melk (Christian Slater nel film, il giovane attore tedesco Damian Hardung nella serie), si reca, nel 1327, in una abbazia benedettina decisamente isolata nella quale svolgono il proprio lavoro alcuni monaci amanuensi. Una volta giunti lì, i due si ritroveranno testimoni di una serie di misteriose morti, sulle cause delle quali il solerte Guglielmo indagherà a fondo, coadiuvato dal suo fedele amico Adso, il narratore esterno della storia, mettendo così a nuda una verità più torbida di quanto potesse immaginare.

Nella storia troverà posto anche una setta eretica: si tratta dei dolciniani, seguaci di Fra Dolcino di Novara e bollati come eretici dalla Chiesa Cattolica; se ve lo state chiedendo, non si tratta di un espediente narrativo, ma una setta eretica realmente esistita nel Basso Medioevo.

Eresia e stregoneria sono il pane quotidiano per un Inquisitore come Bernardo Gui, interpretato in maniera più che inquietante e convincente da Rupert Everett, nella parte che un tempo fu di F. Murray Abraham. Gui e altri personaggi faranno sentire Guglielmo e Adso alle strette più e più volte durante le loro indagini: cosa stanno cercando di nascondere con tanto affanno?

IL TORBIDO FASCINO DEL MISTERO

Non c’è molto altro da dire sulla storia del Nome della Rosa, poiché basata su un grande romanzo, ma possiamo ancora aggiungere qualcosa sulla prima puntata di questa nuova mini serie televisiva, la cui visione nel complesso risulta avvincente e molto piacevole, grazie alle performance degli attori (come non parlare di Salvatore, reso immortale dalla magistrale interpretazione di Ron Perlman, e ora impersonato da un grande, inedito e irriconoscibile Stefano Fresi?), all’indubbio fascino delle location e della vicenda narrata, impreziosita da inedite digressioni che mostrano il passato dei personaggi, per caratterizzarli in maniera più approfondita e farli così conoscere meglio agli spettatori. Ciò che invece non sempre è convincente è il doppiaggio in italiano (ricordiamo che la serie è stata girata in originale in lingua inglese).

Il finale aperto lascia gli spettatori con il fiato sospeso, anche se la brusca interruzione della scena finale risulta piuttosto spiazzante. In definitiva, il risultato finale è davvero apprezzabile, anche quando si tratta di mostrare scene crude come le battaglie con scudi e spade, rumorose e violente come ci si aspetterebbe. Un’ottima regia a cura di Giacomo Battiato e un uso dei colori che verte principalmente sulle tonalità calde che riportano alla memoria i libri antichi contribuiscono a ricreare l’atmosfera storica medievale in cui la vicenda è ambientata.

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