Mandy di Panos Cosmatos | Recensione
Pubblicato il 14 Febbraio 2019 alle 16:00
Presentato all’ultimo Festival di Cannes, il nuovo film di Panos Cosmatos con Nicolas Cage arriva in Italia direttamente per il mercato home video.
Ci sono due film, dentro a Mandy: uno che accumula, l’altro che sprigiona.
Il primo è indigesto, pomposo, respingente, fa rimpiangere di non aver mai visto The Tree of Life in piedi sulla brace ardente o tutto Satantango senza mai sbattere le palpebre, è irritante e talmente consapevole di essere nulla più che vuoto e pretestuoso che inizia ad abbuffarsi di ogni cosa possibile con bulimica ossessione. Il secondo, che parte con la morte del primo, vede Nicolas Cage esplodere della rabbia secca tipica dei revenge-movie come a volersi liberare del pesante fardello rappresentato dai primi sessantuno minuti.
Un boscaiolo, tale Red Miller (Nicolas Cage) vive in una casa nella zona boscosa del deserto del Mojave con la fidanzata Mandy Bloom (Andrea Riseborough), di mestiere illustratrice. Purtroppo da quelle parti girovaga anche una banda di fanatici religiosi, guidata da cantautore folle di nome Jeremiah (Linus Roache): la setta, dedita al culto un gruppo di demoni motociclisti, decide di rapire la ragazza.
Dopo aver cercato di plagiarla attraverso la loro distorta filosofia esoterica, Jeremiah e i suoi uomini uccidono brutalmente la donna davanti a Red: sopravvissuto per miracolo, il boscaiolo si rimetterà in sesto e tornerà alla carica per ottenere una violenta, sanguinosa e infernale vendetta.
E’ un pulp citazionista fatto della stessa materia di cui sono i fatti i cult, questo Mandy, che però più che un film sceglie (anche piuttosto consapevolmente) di essere una mera opera-omaggio e heavy metal che rimanda di continuo alle filmografie di Sam Raimi, Tobe Hooper, Rob Zombie, Clive Barker e Sean Cunningham (la zona in cui il film è ambientato Cosmatos la chiama Crystal Lake).
Diviso in due macro-sezioni diversissime come puntate di una mini-serie televisiva appiccicate l’una con l’altra con la colla vinilica e uno sputo di coerenza, il film per tutta la prima ora ci sfida a restare attaccati allo schermo con considerazioni pseudo-filosofiche ammorbanti e tediose, un delirio psichedelico che ottunde i sensi con fare soporifero e anche un po’ ridicolo; nella seconda parte invece, con camaleontica precisione, l’opera vira ad un genere cinematografico completamente differente, probabilmente per scrollarsi di dosso tutta la polvere accumulata fino a quel punto. E Cage, attore da sempre sottovalutato dalla massa (e riscoperto zimbello dai frequentatori dei social network, rinomati luoghi di trionfo di non-opinioni nei quali si continua a sottovalutarlo, ma a colpi di meme), in questa seconda parte incarna uno dei ruoli per il quale fra cinquant’anni sarà ricordato.
E’ chiaro, fra i due film contenuti in Mandy, quale fosse il film che Cosmatos aveva intenzione di realizzare, ed è altrettanto chiaro che le sue spropositate ambizioni artistiche gli hanno impedito di abbracciare completamente l’idea di un revenge-movie totalmente art-house: è un peccato, perché recentemente con Revenge la regista Coralie Fargeat ci ha ricordato che questo è un tipo di connubio ben più che possibile.
Quel che resta di Mandy, oltre alle citazioni, è un Nicolas Cage in gran forma, ma solo per sessanta minuti: un po’ poco in un minutaggio complessivo che supera le due ore.