The Vanishing – Il Mistero del Faro di Kristoffer Nyholm | Recensione
Pubblicato il 27 Febbraio 2019 alle 18:00
Il film arriverà nei cinema italiani a partire dal 28 febbraio.
Terzo film del 2018 per Gerard Butler (da noi arriva in ritardo) dopo il gran bell’heist movie Nella Tana Dei Lupi e il mediocre Hunter Killer, il thriller scozzese The Vanighing – Il Mistero del Faro è un altro successo per la star diventata famosa in tutto il mondo grazie a 300 di Zack Snyder, il primo ad aver individuato nell’attore britannico il potenziale da supermacho nascosto nella sua barba.
Ma quello diretto da Kristoffer Nyholm ha così poco in comune con il coattismo tipico della filmografia di Butler da riuscire a spiazzare fin dall’inizio, già dalla premessa – un thriller psicologico sulla minuscola isola di un faro – e semmai il vero trionfo dell’opera è quella di riuscire ad arrivare fino in fondo rimanendo fedele a se stessa, alla sua premessa e soprattutto alla promessa di regalarci un Gerard Butler inedito, che con un colpo solo dovrebbe riuscire a fare contenti sia i suoi fan che i suoi detrattori.
James Ducat (Butler), Thomas (Peter Mullan) e Donald (Connor Swindells) sono tre guardiani di un faro che, come d’abitudine, si apprestano ad abbandonare la quotidianità della terraferma per iniziare un altro tipo di routine, quella delle sei settimane di servizio su una piccola e remota isola al largo della Scozia.
Tutto prosegue nella normalità più assoluta fino a quando, il giorno dopo l’improvviso cortocircuito notturno del faro, scoprono sulle sponde rocciose dalla loro minuscola isola un zattera frantumata: a bordo di essa un uomo, apparentemente morto, e un baule pieno d’oro. I problemi che verranno a crearsi saranno molteplici: primo, l’uomo apparentemente morto non sarà così tanto morto; secondo, l’uomo non così tanto morto avrà degli amici non poco interessanti all’oro; terzo, e forse più insormontabile di tutti: riusciranno i tre guardiani a rimanere uniti per fronteggiare i problemi precedenti? Oppure tutta la rabbia che verrà sprigionata a causa di quella violenta lotta per la sopravvivenza causerà il disfacimento del loro legame?
Messa così è evidente che il film di Nyholm abbia come modello principale La Cosa di John Carpenter, tanto per struttura narrativa quanto per temi affrontati, ma il regista fa di tutto per distinguersi dal capolavoro horror e trovare una sua identità, flirtando, più che con la paranoia, con l’odio verso se stessi e l’impossibilità di perdonarsi. A differenza de La Cosa, poi, le suggestioni del genere western non vengono mai suggerite dal panorama o dall’atmosfera, Nyholm punta tutto sui sentimenti, sulla sconfinatezza del senso di isolamento trasmesso dal luogo geografico, dalla consapevolezza che su quell’isola le regole della civiltà non valgono più, e che l’uomo lì è solo con i propri drammi, con le proprie paure e soprattutto con i propri peccati. Non c’è la legge a giudicare le azioni dell’individuo, spetta all’individuo guardarsi dentro per trovare un modo di giustificarsi o perdonarsi. Oppure no.
Un thriller psicologico, quello di Nyholm (al suo esordio nel lungo dopo le esperienze in televisione con The Killing e soprattutto Taboo) che alterna una gran ruvidezza a momenti di classe assolutamente non richiesti, che di certo elevano il già di per se intrigante materiale di partenza.