High Flying Bird di Steven Soderbergh | Recensione
Pubblicato il 9 Febbraio 2019 alle 18:00
Il film è disponibile su Netflix.
Era semplicemente fisiologico che uno sperimentatore, visionario ed eclettico come Steven Soderbergh finisse a girare un film per Netflix, dopo aver prodotto la mini-serie capolavoro Godless e soprattutto scoperto la comodità – lui che, oltre a essere un produttore, uno sceneggiatore e un montatore, è anche un direttore della fotografia – di riprendere con l’Iphone, tecnica utilizzata nel precedente Unsane con protagonista Claire Foy. La disputa su quale sia il regno dei film impazza fra critici, festival e autori, chi schierati dalla parte della sacralità della sala cinematografica (Christopher Nolan, Quentin Tarantino e Paul Thomas Anderson su tutti), chi invece disposto ad aprirsi ad altre frontiere.
Di frontiere nel corso della sua carriera Soderbergh ne ha saggiate di ogni colore tipo e gusto, e l’idea di un film girato col cellulare da distribuire tramite una piattaforma streaming (quindi visionabile anche attraverso lo schermo di un dispositivo mobile) deve avergli fatto sfregare le mani per la felicità. Che poi High Flying Bird sia diventato la perfetta metafora della sua intera filmografia e del suo modo stesso di concepire il cinema, è tutto di guadagnato.
Arrivato un po’ in sordina e senza grosse fanfare per tutti gli abbonati al servizio di Netflix, il film è ambientato nel mondo dell’NBA, o meglio ai margini di quel mondo, in una bolla burocratica che si viene a creare in seguito ad uno sciopero delle società sportive: il protagonista è Ray Burke (un André Holland che, dopo Selma, sta allestendo un curriculum niente male con Moonlight e il ruolo da protagonista nell’ottima serie tv Castle Rock) un procuratore sportivo col fiato sul collo che, dopo aver intravisto una controversa opportunità di guadagno, inizia a corteggiare una giovane promessa del basket che ha appena firmato per un’importante squadra, ma che attualmente è comunque senza lavoro per via dello sciopero, iniziato appena prima che il suo contratto venisse depositato.
Burke lavora fuori dagli schemi e soprattutto fuori dal sistema, e diventa chiarissimo fin dal primo atto che è il perfetto eroe soderberghiano: lui, che ha sempre agito al di là di Hollywood, ai suoi margini, un po’ dentro e un po’ fuori (ha sempre preferito fuori), cercando vie di mezzo e compromessi nel sistema per poter avere i mezzi e la libertà creativa di andare a girare fuori dal sistema, è praticamente la versione cinematografica di questo procuratore stacanovista, che non conosce Lord Voldemort, cinema, ma è appassionato de Il Trono di Spade, televisione (e seconda citazione alla serie HBO dopo quella divertentissima in La Truffa Dei Logan: evidentemente l’onnivoro Soderbergh è un fan), che è un sognatore ma è anche un pratico, uno che conosce gli inghippi della società contemporanea (quali parole o ideologie o comportamenti o perfino orientamenti sessuali vanno bene all’opinione pubblica e quali invece no) e sa come muoversi al suo interno.
E’ insomma un film sul basket ma è soprattutto un film sulle industrie, che siano sportive o cinematografiche, sulle linee che tratteggiano i regolamenti di quelle industrie e sulle scappatoie che a volte è necessario inventarsi per poter spiccare veramente il volo. Che Netflix da pochi giorni sia diventato ufficialmente il primo streamer ad entrare nella MPAA è una (non)coincidenza davvero sublime.