Benvenuti a Marwen di Robert Zemeckis | Recensione
Pubblicato il 13 Gennaio 2019 alle 19:00
Arriva in Italia il nuovo film di Robert Zemeckis, Benvenuti a Marwen, con Steve Carrell, Eiza González, Diane Kruger, Leslie Mann, Gwendoline Christie e Janelle Monáe.
Dopo il leggendario ibrido live-action e animazione Chi Ha Incastrato Roger Rabbit? e la “trilogia” della motion-capture composta da Polar Express, La Leggenda di Beowulf e A Christmas Carol era fisiologico per la filmografia di Robert Zemeckis fare l’esatto opposto e ibridare la mo-cap (e non più l’animazione 2d) con il live-action: il risultato è questo Benvenuti a Marwen, un film che più che aggiungere qualcosa alla poetica di questo grande autore ha semmai la stessa valenza di un piccolo sassolino tolto da un scarpa (col tacco, forse?), o di un pomeriggio passato a giocare con le bambole.
Solo che non siamo in Toy Story né tanto meno in Small Soldiers di Joe Dante, le bambole al centro della trama del film non si animano davvero e non hanno vita, se non per la fantasia del suo protagonista: Mark Hogancamp (Steve Carell), un disegnatore di fumetti che a seguito di un brutale pestaggio ha perso sia i propri ricordi che la propria dote artistica, e che oggi lotta per guarire e per ritrovare il proprio spirito grazie al potere della sua immaginazione. E’ grazie ad essa infatti che Mark, rimettendo insieme pezzi della sua vecchia e della sua nuova vita, costruisce meticolosamente una mitica città belga in miniatura, Marwen, nella quale può essere il capitano Hogie, un pilota di aerei da combattimento della Seconda Guerra Mondiale.
Qui, a Marwen, Mark è un eroe, combatte i suoi nemici (dei Nazisti che, per qualche mistico motivo, tornano sempre in vita e non riesce mai a sconfiggere definitivamente) e vive una vita d’avventura insieme alle sue collaboratrici, tutte bambole ispirate alle donne più importanti della sua vita.
Ma c’è un cortocircuito piuttosto importante a gravare su Benvenuti a Marwen, ovverosia la natura di finzione delle storie che prendono luogo nella città di bambole: chi guarda sa già che quelle avventure altro non sono che allegorie o proiezioni mentali del protagonista, perciò le scene stesse assumono alla meglio valore simbolico (debole, ogni metafora in questo film è tremendamente debole, incluse quelle meno evidenti – ma comunque ampiamente dichiarate – dei tacchi a spillo e della droga), alla peggio funzione riempitiva.
Certo è interessante il voler raccontare una storia sui chi le storie le racconta per mestiere, con Mark che assume il ruolo di un regista per i suoi personaggi-bambole, intervenendo nelle loro vite come Zemeckis fa con i suoi attori: ma è un sotto-testo che rimane fin troppo sotto la superficie zuccherosa di un film che sulla carta è sembrato sicuramente splendido, ma che poi sullo schermo si è rivelato piuttosto difettoso. Non aiuta, tra l’altro, l’estrema somiglianza (di trama, di sviluppo e di messaggio morale) del ben più riuscito Flight, del quale questo Benvenuti a Marwen sembra una rivisitazione.
Davvero, durante la visione, si ha la sensazione di star assistendo ad un pomeriggio a casa di Zemeckis, impegnato a spendere quaranta milioni di dollari per del sano (e a tratti inventivo) divertimento. All’infuori della persona del regista, però, è difficile che questo pomeriggio ludico da terza elementare possa risultare stimolante per qualcun altro.