True Detective 3 – Ep. 1-5 | Recensione in anteprima
Pubblicato il 4 Gennaio 2019 alle 20:00
Grazie a Sky Italia abbiamo visto in anteprima le prime cinque puntate di True Detective 3, nuova incarnazione della serie HBO creata da Nic Pizzolatto.
A ben quattro anni di distanza dalla seconda stagione (troppo bacchettata dai più), HBO e Nic Pizzolatto tornano alla carica con un nuovo ciclo di storie su agenti di polizia tormentati alle prese con inquietanti misteri: la sfida di True Detective 3 è doppia, perché oltre a far felici tutti i fan delusi da True Detective 2 deve anche lei confrontarsi necessariamente con la gigantesca prima stagione diretta da Cary Fukunaga, che nel 2014 aveva piegato il medium televisivo per riplasmarlo e farlo assomigliare come mai prima di allora a quello cinematografico.
E’ interessante vedere questa terza stagione in relazione alla seconda: i tempi sono cambiati, il livello qualitativo medio della televisione si è innalzato a dismisura, e se Pizzolatto, dopo il successo del primo True Detective, sfornò l’anno dopo altri otto episodi in preda ad un delirio di onnipotenza scaturito dall’enorme successo ottenuto con l’oscura vicenda di Rusty Cole e Marty Hart, oggi nei corridoi HBO l’aspettativa è alta e le gambe tremano, perché questa terza stagione è attesa al varco da chiunque, tanto dai fan – che attendono la rinascita – quanto dai detrattori – che sperano in quello che sarebbe il fallimento definitivo.
Il timore è evidente nella totale sottrazione di quell’ambizione smodata che aveva caratterizzato True Detective 2 (piena di eventi, personaggi, sotto-trame, talmente piena da diventare a tratti caotica), e il risultato è un ritorno alla struttura delle origini, che però sa essenzialmente di remake della prima stagione.
Gli elementi ci sono tutti, dalle varie linee temporali interconnesse al luogo geografico (siamo nel Missouri, e non più in Lousiana, ma è la stesso ceto medio white trash che finisce sotto la lente d’ingrandimento di Pizzolatto), con addirittura situazioni, scene e perfino indizi (la bambola di paglia al posto del simbolo satanico in legno) che rimandano per forza di cose alla storia di cinque anni fa.
La differenza però è che le suggestioni filosofiche della prima stagione – che erano spirituali nella seconda – qui diventano intimiste come non mai, con Mahershala Ali unico vero protagonista alle prese con lo stesso personaggio ma in tre momenti diversi della sua vita: 1980, quando il detective Hays (Ali), insieme al suo partner Roland West (Stephen Dorff) inizia ad occuparsi dell’improvvisa scomparsa di due bambini; il 1990, quando l’idillio privato di Hays, ora sposato e con figli, viene bruscamente interrotto dalla riapertura del caso di sparizione; e infine il 2015, quando un Hays ormai invecchiato e in pensione racconta a se stesso (e quindi a noi) la storia della sua via, prima che l’Alzheimer che lo rovini per sempre.
https://youtu.be/RZP6t1FmVO8
E’ un Pizzolatto che gioca a fare Christopher Nolan, con i ricordi del 1980 e del 1990 che si sovrappongono alle sequenze nel presente, addirittura interagendo fra di loro in alcune sequenze (un po’ stonate, dato che sembrano uscire da una storia di fantasmi) e intervallandosi con incubi e visioni scaturite dalla malattia che si sta mangiando il cervello del protagonista. La trovata è molto azzeccata e ben si adatta alle atmosfere decadenti della serie, che però in questo modo ruota esclusivamente sul personaggio di Ali, con gli altri personaggi (compreso quello di un meraviglioso Scott McNairy, il migliore di tutto il cast) rilegati a ruoli da comprimari. Non che ci sia qualcosa di sbagliato in questo, ma è curioso appunto per il paragone con la seconda stagione di cui sopra, che di protagonisti ne aveva ben quattro.
Evidentemente la miscela perfetta della prima stagione non può essere replicata, ed è ingiusto gettare questo peso sulle spalle delle altre (passate, presenti ed eventualmente future) incarnazioni della serie antologica, che comunque rimane sempre ben al di sopra di altri esempi di genere affine.
Il problema di True Detective 3 non è tanto il paragone con la pietra miliare del 2014, quanto semmai il suo costante desiderio di voler giocare quella stessa partita ma con carte differenti: sfilacciare la narrazione su tre tempi diversi per raccontare lo stesso personaggio rende lo svolgimento molto meno avvincente (c’erano due personaggi nella prima stagione, ma due soli tempi), soprattutto poi se recentemente c’è stato Castle Rock ad illustrare il tema della demenza senile, con maggior efficacia e addirittura in un solo episodio; anche lo storytelling, soprattutto negli stacchi temporali, non regge il confronto con la cura dimostrata da Mike Flanagan in Hill House, in cui ogni singolo passaggio fra presente e passato era giustificato da un dettaglio, da una parola, da un gesto, mentre qui tutto sembra più artificioso.