Suspiria di Luca Guadagnino | Recensione
Pubblicato il 19 Dicembre 2018 alle 20:00
Il nuovo film di Luca Guadagnino arriverà in Italia dall’1 gennaio 2019.
E’ un vero e proprio trionfo il nuovo Suspiria diretto da Luca Guadagnino, probabilmente uno dei migliori horror prodotti nel XXI secolo e fra i dieci più belli usciti dopo Shining: il regista palermitano fa con la pietra miliare di Dario Argento quello che ogni autore dovrebbe fare nell’approcciarsi all’opera di qualcun altro, non solo tradirla di sana pianta ma farla a pezzi dall’inizio alla fine, per poi riprendere quei cocci e rimontarli per creare un oggetto totalmente diverso, ma di uguale valore. Se non superiore.
Sottratto dall’equazione l’espressionismo fantasy e barocco che caratterizzava il capostipite del 1977, Guadagnino aggiunge suggestione psicanalitiche, riflessioni sul femminismo (che pure erano evidenti nel film di Argento, ma qui vengono associate alla rivoluzione sociale) e analizza le divisioni interclassiste, spostando la sua scuola di danza privata da Friburgo alla Berlino divisa dal Muro (scelta geniale che enfatizza il tema della spaccatura – morale, etica, psicologica, di leadership – che fa da spina dorsale al film).
Inizia sempre con la pioggia, questo Suspiria, ma è come se Guadagnino quella pioggia la incanalasse dall’altra parte del marciapiede e il canale di scolo la conducesse altrove, lungo un percorso che è sì parallelo a quello compiuto di Argento ma che allo stesso tempo è così unico, specifico e sorprendente. E questo film è tutte queste cose insieme, unico, specifico e sorprendente, e poi altre ancora.
Come in un film di Guillermo Del Toro gli orrori della Storia si fondono con gli orrori della vicenda narrata, ma l’opera resta saldamente nel territorio della sofisticazione (da sempre peculiare del cinema di Guadagnino) per la capacità con la quale infonde alla mitologia stregonesca immaginata da Argento e da Daria Nicolodi una base retorica che parte dall’arte, e dalla sua vibrante potenza. E’ un’ossessione tipica del suo cinema, il parlare dell’arte: Io Sono L’Amore lo faceva con la gastronomia, A Bigger Splash con la musica, Chiamami Col Tuo Nome con la poesia; in Suspiria è la disciplina è ovviamente la danza, che a differenza dei film precedenti piuttosto che uno sfondo elegante diventa un personaggio, più metafisico che di carne ed ossa ma che è letteralmente capace di possedere corpi e compiere azioni (spesso e volentieri crudelissime).
Ad oggi non c’è un altro regista al mondo che tratta in maniera così potente la correlazione fra l’Arte e lo spirito umano, come le due cose siano indissolubilmente legate l’una all’altra e come riescano ad influenzarsi a vicenda, come la prima spinga la seconda a rinnovarsi di continuo e come viceversa la seconda renda mutevole la prima.
Si procede a metà fra il gotico (Tilda Swinton che parla di verticalità, di innalzarsi verso il cielo) e il ritmo rarefatto del cinema horror orientale, fatto di un incedere lento ma costantemente teso, come un muscolo al quale venga chiesto di sopportare uno sforzo non così eccessivo, ma per un numero infinito di minuti. E’ un Suspiria onirico che si affaccia nell’astrattismo e che non è quasi mai un horror vero e proprio, è un dramma sulla crescita e sul mutamento, sulla trasformazione – di corpi, di anime, di idee, di luoghi – che esplode in tre singole sequenze terrificanti che una volta viste non potranno essere mai più rimosse. E forse è proprio questo suo continuo tentativo di svincolarsi dall’horror ad esaltarne ancora di più le fattezze oscure, finendone risucchiato inevitabilmente nella sconvolgente, lunghissima e perversa scena finale.
Come acqua in un canale di scolo che sgorghi nel cuore rosso dell’Inferno.