Alpha – Un’Amicizia Forte Come la Vita di Albert Hughes | Recensione

Pubblicato il 6 Dicembre 2018 alle 20:00

Il nuovo film di Albert Hughes arriva in Italia questa settimana.

Senza alcuna fantomatica ambizione o la minima ombra di intellettuale e fastidiosamente retorica pretesa, il sempre solido Albert Hughes con il suo nuovo film Alpha – Un’Amicizia Forte Come la Vita realizza un’avventura lineare e ordinata, narrativamente già vista ma mai noiosa e soprattutto sorprendentemente accattivante dal punto di vista visivo: immaginate un film di Jean-Jacques Annaud girato con l’enfasi dello Zack Snyder di 300 e fotografato dal Robert Richardson sotto acidi di The Doors di Oliver Stone, spedite tutti questi elementi indietro nel tempo fino a farli arrivare al Paleolitico superiore e completate la folla miscela che viene fuori con un’animazione in CGI tanto economica quanto accettabile (e perfettamente calzante con il look “fumettoso” del film), e a quel punto dovreste avere un’idea solo piuttosto generale di quello che vi aspetta una volta spentesi le luci della sala.

Dopo di che attivate al massimo i sensori per la sospensione dell’incredulità e lasciatevi trasportare.

Ambientato 20000 anni fa durante l’ultima Era glaciale, Alpha – Un’Amicizia Forte Come La Vita racconta l’avvincente storia di sopravvivenza, crescita, iniziazione e improbabile amicizia fra un ragazzo e un lupo solitario. Keda (Kodi Smit-McPhee) giovane uomo delle caverne rimasto ferito durante la sua prima battuta di caccia, viene creduto morto dai membri della sua tribù e soprattutto da suo padre Tau (Jóhannes Haukur Jóhannesson, che è praticamente il fratello gemello dell’Orson Welles degli ultimi anni).

Come un antenato della steppa dello Hugh Glass del The Revenant di Alejandro González Iñárritu, anche Keda si ritrova di colpo completamente solo e sperduto nella natura ostile e selvaggia. Ma a differenza del trapper di Leonardo Di Caprio invece di farsi sbranare da un orso, il giovane ragazzo delle caverne metterà a frutto gli insegnamenti di suo padre e riuscirà ad addomesticare un lupo dopo averlo ferito per sopravvivere all’attacco di un intero branco.

L’animale ferito viene lasciato indietro dai suoi compagni, e subito la correlazione fra i destini del ragazzo e del lupo sono messi sullo stesso piano. Impareranno non solo a collaborare ma a diventare un tutt’uno,  veri e propri emblemi di una relazione che nel corso dei millenni non farà che evolversi e che in loro individua i primi esempi. Non c’è nulla di originale nella vicenda narrata, che nel primo atto racconta il viaggio da a a b che il protagonista nei successivi due dovrà compiere al contrario, da b a a, per tornare allo status quo originale ma che vedrà con occhio diverso (percHè nel frattempo, durante l’avventure, avrà imparato tante cose sul mondo e soprattutto su se stesso) ma a stupire è semmai l’impianto visivo che viene costruito per questa storia non banale ma semplice e soprattutto per fortuna mai smielata.

La fotografia di Martin Gschlacht restituisce immagini-cartoline particolarmente entusiasmanti, prelibatezza che farà la gioia non solo dei cinofili ma anche dei cinefili: c’è un che di memorabile in alcune istantanee, che davvero impreziosiscono un film altrimenti non solo modesto ma addirittura dimenticabile; sono talmente cariche di questa caratteristica e curiosa psichedelia anacronistica che non si può ammirarle e rimanere indifferenti.

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