Bohemian Rhapsody di Bryan Singer | Recensione

Pubblicato il 30 Novembre 2018 alle 15:00

Il film è attualmente in programmazione nei cinema italiani.

E’ Bohemian Rhapsody che Mike Myers cantava in auto insieme ai suoi amici in Fusi di Testa di Penelope Spheeris, 1992, l’anno dopo la morte di Freddy Mercury. Lo stesso Mike Myers che con aria compiaciuta e dietro un trucco e parrucco niente male, nei panni del produttore Ray Foster in Bohemian Rhapsody (2018) avrà non poco da ridire sui toni e soprattutto sulla lunghezza (oltre sei minuti) del celebre pezzo dei Queen, che dà il titolo al film di Bryan Singer.

Questa è la scena dove la compiacenza è più sottile, in un film che più compiacente non si può: nulla da dire in proposito, in produzione del resto ci sono quegli stessi membri della storica band londinese che sono sopravvissuti al leggendario frontman di origini parsi, e Singer canta (scusate il gioco di parole) le lodi di tutto e di tutti come è giusto che sia. Non è la voglia di essere così smaccatamente fanservice, di ammiccare di continuo solo ed esclusivamente a chi la storia dei componenti della band la conosce come fosse il Vangelo, di chi vuole vedere i propri miti rinascere sullo schermo in corpi e volti molto simili a quelli originali, a fare di Bohemian Rhapsody un film mediocre sotto ogni punto di vista. Non è niente di tutto ciò, questo va benissimo, realizzare un film celebrativo in tutto e per tutto che accontenti i supporter della band e che li faccia cantare e battere le mani al ritmo della loro musica preferito è lecito, romantico e anche affascinante da un certo punto di vista. E’ già stato fatto, lo abbiamo già visto e non c’è nulla di scandaloso nella mossa commerciale (anche vincente, visti i risultati degli incassi).

Il grosso, grossissimo problema del film di Bryan Singer – e di Dexter Fletcher, che non è accreditato come co-regista ma che ha sostituito Singer a metà riprese dopo il suo licenziamento – è quello di non essersi minimamente preoccupato dell’aspetto cinematografico dell’intera faccenda.  Al netto dei noti problemi produttivi, questo biopic su Freddy Mercury (e non sui Queen tutti) è un film tremendamente blando, schematico, anche piuttosto freddo (non freddy) e di impostazione particolarmente vetusta, che alterna vita privata a vita pubblica, intimità a professione, raccontando la storia di una famiglia che viene divisa per colpa di un suo membro e che grazie all’ammenda di quel membro tornerà ad unirsi. Un’idea di cinema debole, e neanche particolarmente originale, difficile da rendere interessante per ben due ore e un quarto.

Gli eventi scorrono uno dopo l’altro come voci su una pagina di calendario, arrivati in fondo si strappa la pagina vecchia e si passa a quella nuova e così via, coi momenti musicali e i momenti personali (i primi tour e la scoperta della bisessualità … o omosessualità, il film non lo chiarisce), scene chiave che in un film dalla sceneggiatura chiara e dal montaggio ben calibrato avrebbero avuto lo spazio necessario per essere sviluppate a dovere, qui vengono buttati in pasto alla folla, cartoline a corredo di questo libro biografico o quell’intervista che chi sta guardando il film deve necessariamente andarsi a recuperare.  Non certo quello che era lecito aspettarsi da uno sceneggiatore come Anthony McCarten.

Non è propriamente un film, Bohemian Rhapsody, quanto una sequela di aneddoti messi in ordine cronologico e narrati mediante dialoghi spesso e volentieri pessimi, da carie ai timpani. Anche Rami Malek, così simile al vero Freddy Mercury nelle foto promozionali, sembra quasi sempre un attore che sta impersonando il frontman dei Queen, e mai il frontman dei Queen: nelle scene di dialogo, quando c’è bisogno di abilità mimiche che non possiede, il suo Freddy ha sempre quegli occhi sgranati e lucidi, e una protesi dentale così ingombrante da far tornare in mente l’orrida maschera di Bane e il modo in cui mozzò la performance di Tom Hardy.

Poi però arriva l’ultimo atto, il concerto del Live Aid, durante il quale Rami Malek diventa davvero Freddy Mercury: e nonostante il pessimo pubblico in CGI e i fondali agghiaccianti, regia e montaggio più schematici che mai (primi piani sugli attori/cantanti, controcampi sul pubblico, primo piano su Lucy Boynton, primo piano su Aaron McCusker, panoramica della folla e poi si riparte dagli attori/cantanti, in circolo per circa dieci minuti) il film scarica dallo schermo tutta quell’energia che fino a quel momento non aveva dimostrato di avere. Ma lo fa attraverso la musica dei Queen, dieci volte più impattante dell’impianto filmico che le viene allestito intorno.

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