A Private War di Matthew Heineman | Recensione
Pubblicato il 23 Novembre 2018 alle 15:00
Dopo il passaggio alla Festa del Cinema di Roma, arriva nelle sale italiane A Private War, film d’esordio di Matthew Heineman con protagonista Rosamund Pike.
C’è sempre tanta amarezza quando da una brutta storia vera viene confezionato un gran bel film, ma di quella agrodolce più dolce che agro, per la quale si prova un leggero senso di disagio superficiale ma che in fondo ci dà tantissima soddisfazione.
Ed è questo che si prova nel bel biopic dell’esordiente Matthew Heineman, che in questa sua grande prima prova nel lungometraggio (suoi i documentari Escape Fire: The Fight to Rescue American Healthcare, Cartel Land e City of Ghosts) realizza un film solido – compito anche difficile quando si vuole ricoprire una storia della durata di oltre trent’anni – che ci lega alla sua protagonista e ci fa sentire i suoi drammi, le sue paure, la sua guerra personale.
A Private War racconta la storia vera dell’intrepida reporter di guerra Marie Colvin (Rosamund Pike), che stufa di inseguire le tigri in Sri Lanka per il settimanale britannico The Sunday Times accettò di dedicarsi alla cronaca di guerra, incarico che ricoprì dal 1985 al 2012. Heineman mette in scena il suo coraggioso impegno professionale e umano senza limitarsi a realizzare uno sterile reportage tutto eventi e senz’anima, ma la segue attraverso i luoghi più pericolosi della Terra (Libia, Iraq, Afghanistan) chiedendosi cosa ci vuole per essere come lei, per fare quello che faceva lei, indagando la non solo la reporter ma soprattutto la donna.
All’età di 56 anni Marie viene inviata ad Homs per seguire la guerra in Siria dove, durante un’offensiva dell’esercito locale, sarebbe stata tragicamente uccisa insieme al fotografo francese Rémi Ochlik.
Noi la seguiamo nel tempo, impariamo a conoscere il suo approccio alla vita, così frenetico, sempre di corsa, sempre attaccata alla bottiglia, sempre ad inseguire le storie più pericolose e a farsi terra bruciata intorno: il suo migliore amico (Nikki Amuka-Bird), il suo capo (Tom Hollander) e perfino i suoi amanti (Greg Wise, Stanley Tucci) devono costantemente tenere il passo, e a fatica; perfino l’ex soldato-fotografo che ha scelto di accompagnarla in alcune delle sue spedizioni più rischiose (Jamie Dornan) resterà stupito dal suo carisma, dalla sua forza d’animo instancabile, dal suo magnetismo trascinante.
E il regista, che conosce chiaramente il territorio in cui si muovono lui, la Pike e il direttore della fotografia Robert Richardson, infonde questo carisma nella storia: anche se fatica leggermente per dare vigore ad alcuni passaggi narrativi e momenti più convenzionali, il film trova il suo ritmo mentre va avanti, alternando l’adrenalina e il puro terrore dei teatri di guerra ai traumi più terribili che infestano l’anima della donna. La recitazione della Pike in questo senso eleva (e di moltissimo) il materiale di partenza, consegnandoci una Marie mai santificata, sempre piena di difetti, che sa essere tosta più degli uomini che le stanno attorno ma senza sacrificare la propria sensualità di donna; questa protagonista non è solo un maschiaccio con le tette, la benda alla Nick Fury e la chioma col topo, ma una persona che, per quanto straordinariamente coraggiosa, è rimasta una persona – coi suoi pregi e i suoi difetti – fino alla fine.
Il film le restituisce dignità, e a volte lo fa perfino con grande classe.