Fahrenheit 11/9 di Michael Moore | Recensione
Pubblicato il 8 Novembre 2018 alle 20:00
Il documentarista premio Oscar Michael Moore torna a parlare della presidenza Trump e della morente coscienza democratica statunitense nel suo nuovo film, Fahrenheit 11/9.
Dopo che due anni fa con Michael Moore in Trumpland – Nella terra di Trump ci aveva illustrato le dinamiche e gli sviluppi della campagna elettorale per le presidenziali degli Stati Uniti del 2016, il documentarista Michael Moore, premio Oscar nel 2003 per Bowling a Columbine, torna a battere sul chiodo incandescente del presidente Donald Trump: lo fa con un sequel ideale del suo capolavoro Fahrenheit 9/11, uno degli otto documentari capace di vincere al Festival di Cannes (uno degli unici due a vincere addirittura la Palma d’Oro, consegnatagli dalla giuria presieduta da Quentin Tarantino), opera che nel 2004 si scagliava contro la presidenza di George W. Bush.
Lì il titolo era un mix fra la data dell’undici settembre e il celebre romanzo distopico di Ray Bradbury Fahrenheit 451, reso al cinema da François Truffaut nel 1966 e da Ramin Bahrani nel 2018 (leggi: recensione di Fahrenheit 451), qui si gioca sulla data dell’elezione a 45esimo presidente USA di Donald Trump, nove novembre.
La coincidenza fa sorridere, l’idea commerciale è geniale, ma esattamente come il film di Bahrani prodotto da HBO è stata una pallida, anzi mediocre imitazione dell’originale di Truffaut, anche questo 11/9 non brilla mai come il suo precedessore 9/11: evidentemente troppo lungo, poco affilato e altrettanto meno focalizzato su un bersaglio preciso, il film non riesce a distinguersi e quindi ad emergere dal resto delle numerose, quotidiane e forse ben più assillanti lamentele anti-Trump.
Venduto come il film che avrebbe messo definitivamente al tappeto l’amministrazione del misogino, razzista e super coatto imprenditore riciclatosi politico, Fahrenheit 11/9 è l’ennesimo grido populista che punta il dito su fatti di cronaca risaputi, un pamphlet che denuncia un re già nudo, che deride sornione invece di andare dritto al punto. Moore sposta il proprio mirino dalla fronte dell’inquilino della Casa Bianca alle teste di coloro che di quella casa gli hanno dato le chiavi (i Democratici, incapaci e corrotti) e concentrandosi soprattutto sull’incredibile e scandaloso trattamento riservato alla cittadina di Flint, Michigan e ai suoi abitanti.
E’ la parte più bella del film, e in teoria dovrebbe esserne anche il fulcro centrale (l’idea è che il destino di Flint sarà quello del resto degli Stati Uniti se i 100 milioni di astenuti che hanno permesso la vittoria di Trump non si faranno sentire) ma tutto resta molto blando, poco incisivo, quasi sempre privo di quell’enfasi che ha contraddistinto i migliori lavori del cineasta. Anche dal punto di vista visivo, le idee più grandi di questo film (l’innaffiamento del giardino della villa del governatore farabutto Rick Snyder, il recarsi nel suo ufficio armato di manette), quelle che ci ricordano il cinema quasi d’inchiesta degli scorsi anni, sono solo degli echi del vecchio Moore, più energico, più tagliente, più determinato, più Moore.
Quando poi vuole essere più spinto, più scorretto e aggressivo, quando cioè arriva a paragonare Trump addirittura ad Adolf Hitler, non solo il commento ci giunge fuori tempo massimo (il paragone è già stato fatto da altri, e in maniera più efficace) ma è anche cinematograficamente banale, con l’idea di montare filmati di repertorio del leader nazista alla voce del presidente USA che sembra scaturita da una sessione di brainstorming del corso di videomaker sotto casa.
Fahrenheit 11/9 è quello che succede quando la politica è talmente scorretta che il politicamente scorretto impallidisce al confronto: ne prendiamo atto, ma non ne usciamo arricchiti né tanto meno cambiati.