Millennium – Quello Che Non Uccide di Fede Alvarez | Recensione

Pubblicato il 3 Novembre 2018 alle 20:00

Arriva in Italia il nuovo capitolo della saga cinematografico di Millennium – Uomini che Odiano le Donne, questa volta diretto da Fede Alvarez e con protagonista Claire Foy.

Non è ancora chiaro quale irripetibile congiunzione astrale debba prendersi il merito per aver benedetto questa settimana il pubblico italiano con una doppia razione in sala di Claire Foy (la trovate insieme a Ryan Gosling anche nel sensazionale First Man – Il Primo Uomo di Damien Chazelle), è certo tuttavia che se Millennium – Quello Che Non Uccide è ad oggi il miglior capitolo di questa non saga cinematografica l’unica persona da ringraziare è questo incredibile regista uruguaiano che risponde al nome di Fede Alvarez.

Privo delle ambizioni dei precedenti capitoli, sia di quelli originali svedesi, il primo di Niels Arden Oplev (Uomini Che Odiano Le Donne) e i suoi due seguiti di Daniel Alfredson (La Ragazza Che Giocava Con Il Fuoco, La Regina Dei Castelli di Carta), sia del più recente remake americano diretto da David Fincher, Alvarez confeziona un thriller pulito, asciutto per sceneggiatura e messa in scena, capace di andare dritto al punto e soprattutto essere molto più divertente: per la prima volta si ha la sensazione che l’autore dietro questi adattamenti cinematografici abbia davvero azzeccato il tono, il timbro e lo stile più giusti per trasmettere l’essenza dei libri sullo schermo nella maniera più giusta, vale a dire quella di un b-movie privo di orpelli, scarno, diretto, concentrato (sia nell’accezione di focalizzato che in quella di denso), adrenalinico e appagante.

La trama, ispirata al quarto romanzo di Millennium (edito in Italia proprio col titolo Quello Che Non Uccide, che è anche il primo ad essere scritto dopo la prematura morte del creatore della serie Stiegg Larson), vede una Lisbeth Salander ormai nota giustiziera (verrà definita proprio così) alle prese addirittura con una minaccia mondiale quasi stile James Bond, e un Michael Blomkvist mai così secondario (proprio come una supereroina con la sua spalla).

Claire Foy impersona la protagonista come se stesse recitando nel ruolo di Bruce Wayne (sono molti i richiami a Il Cavaliere Oscuro, molti e anche palesi) e le conferisce una fragilità inedita, ben distante dal machismo di Naomi Rapace e soprattutto dall’irritante imperturbabilità di Rooney Mara, che sfiorava l’ebetismo e il cui look facciale, ironicamente, ha ispirato quello del villain di questo quindi film. E’ una Lisbeth dagli occhi da cerbiatta e azzurrissimi, sempre lucidi, che ha paura come non mai del proprio passato e soprattutto di essere inghiottita da esso come se si trattasse di un buco nero o del fuoco (si cita il poeta americano Delmore Schwartz), è una Lisbeth che appena può si accovaccia in posizione fetale per distaccarsi dal mondo (c’è un’inquadratura che ricorda molto una di Gravity, che ha lo stesso identico valore simbolico), è una Lisbeth supereroe che ha gadget fighissimi, un team di hacker superesperti a guidarla (il famoso uomo sulla sedia di Spider-Man: Homecoming) e addirittura un covo segreto.

E’ una Lisbeth che deve rinascere – e lo farà squarciando una particolare crisalide –  e che è particolarmente tagliente con le parole (due battute perfette del grande Steven Knight, sempre una garanzia in sceneggiatura, una che richiama in modo meta-testuale il film precedente e un’altra sui presupposti sbagliati che collegano i termini “amico” e “persona cara”) ma molto in difficoltà nel corpo a corpo (bravissimo Alvarez a gestire il rapporto di scala e a mettere sempre in difficoltà Lisbeth nei duelli fisici contro altri uomini, più grossi e più pericolosi di lei, che per avere la meglio deve usare l’ingegno). E più in generale il regista è sempre puntuale a restituirci le sensazioni di disagio di tutti i personaggi, orchestrando una trama complessa ma allo stesso tempo efficace che punta tutto sulla narrazione tratteggiando i protagonisti in maniera concisa, limpida ed epidermica, lasciando parlare i fatti più che i sentimenti (che si intuiscono dai fatti), esattamente come dovrebbe fare ogni b-movie che vuole essere grande.

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