Angel Face di Vanessa Filho | Recensione

Pubblicato il 2 Novembre 2018 alle 20:00

Direttamente dalla sezione Un Certain Regard dell’ultimo Festival di Cannes, arriva in Italia Angel Face, con Marion Cotillard nel ruolo di una mamma assente.

Non ha niente a che vedere col seminale noir Seduzione Mortale di Otto Preminger questo Angel Face di Vanessa Filho, se non la sola coincidenza del titolo (il noir del 1953 era intitolato proprio Angel Face, in originale): anzi non potrebbero essere più distanti, cinematograficamente parlando.

Il film d’esordio della Filho è il classico ritratto di famiglia disfunzionale che mette a confronto una madre disadattata, irresponsabile e senza un soldo in tasca con una figlia piccola impertinente, piena d’energia e piuttosto abbandonata a se stessa. Il paragone più immediato che potrebbe venire in mente è con il recente Un Sogno Chiamato Florida di Sean Baker, se non fosse che quel tipo di dolcezza che aveva quel film nei confronti dei propri personaggi la Filho non solo la ignora completamente, ma proprio sembra non volerla neppure contemplare: diviso in due parti (la prima dedicata alla Marlène di Marion Cotillard, la seconda alla Elli della giovane Ayline Aksoy-Etaix), il film fa tutto ciò che può per mettere in difficoltà l’adulta e prendere le parti della figlia, ed è probabilmente questo il difetto maggiore.

Elli, una bambina di otto anni, vive con sua madre Marlène in un piccola città nei pressi della Costa Azzurra (scaltro e ruffiano portarlo a Cannes, dove però ha vinto zero, e giustamente). L’obiettivo principale delle loro giornate è sfuggire ai servizi sociali, e trovare sempre nuovi stimoli per combattere la noia. Dopo l’ennesima notte di eccessi, però, Marlène decide definitivamente di rinunciare al proprio ruolo materno e e abbandona Elli per un uomo appena incontrato. La bambina dovrà confrontarsi con i demoni di sua madre e trovare un modo per riaverla.

La Cotillard, con la camera sempre addosso e che la segue ovunque vada, è eccezionale, il suo personaggio è magnetico e interessante, coi suoi lustrini e tutti quei glitter (ottimo il lavoro della costumista Ariane Daurat, così come quello del direttore della fotografia Guillaume Schiffman), ma mai delineato perfettamente da un film che sembra volercela raccontare solo per giustificare la seconda parte, per renderla più pietosa agli occhi di guarda; al contrario la Akysoy-Etaix ha il personaggio più debole, più canonico, che non è aiutato né dalla recitazione della bambina (che fa del suo meglio delle scene normali, ma fatica ad ingranare quando c’è bisogno di enfatizzare le emozioni più importanti) né dal modo in cui il film la osserva.

Non c’è quel senso di infinita favola estiva rosa shocking che rendeva così affascinante Un Sogno Chiamato Florida, non c’è quell’ambivalenza fra la capacità dei bambini di trovare il divertimento anche nelle situazioni peggiori alternata ai pericoli mostruosi del mondo (la scena del pedofilo, ancora oggi a distanza di mesi rimane poderosamente inquietante).

Più di tutto a soffrire di queste mancanze è l’atto finale, che non ha l’impatto che avrebbe dovuto e soprattutto voluto avere perché le azioni di Ellie non vengono mai giustificate a dovere nel corso dei minuti precedenti.

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