Disobedience di Sebastián Lelio | Recensione

Pubblicato il 28 Ottobre 2018 alle 20:00

Arriva in Italia il nuovo film di Sebastián Lelio, Disobedience, con protagoniste Rachel Weisz e Rachel McAdams.

Ispirata a quella del romanzo del 2007 Disobbedienza dell’allora esordiente scrittrice inglese Naomi Alderman, la vicenda prende luogo nella comunità ebraica ortodossa della Londra contemporanea, grigia e spenta e piovigginosa,  e racconta la storia di passione proibita che nasce (anzi rinasce) fra Ronit ed Esti: la prima, la più grande fra le due, lavora a New York e torna nella città natale per i funerali del padre; la seconda, timida e riservata, è sposata col cugino della prima. Le due in passato hanno avuto una storia, che si riaccende in questa nuova fase della loro vite.

E’ questo il soggetto che il cileno Sebastián Lelio ha scelto per il suo follow-up a Una Donna Fantastica, premiato come miglior film straniero durante la scorsa cerimonia degli Academy Awards. Ebbene questo Disobedience, con protagoniste Rachel Weisz e Rachel McAdams, non è bello come il film con la transessuale Daniela Vega ma resta comunque un’ottima conferma del talento dell’autore.

E’ un melodramma vecchio stampo che descrive splendidamente il triangolo amoroso fra la Weisz, McAdams e il sempre bravissimo Alessandro Nivola nella parte di Dovid, cugino di Ronit marito di Esti. I tre attori e la loro eloquenza di sguardi, di gesti e di espressioni diventa fondamentale per l’approccio delicato di Lelio, che non ci spiega mai quello che sta succedendo e quali sono i legami fra queste persone: intuiamo il grado di parentela che c’è fra Ronit e Dovid, così come molto presto ci rendiamo conto che fra le due donne c’è stato qualcosa in età adolescenziale; la scelta risulta vincente perché favorisce in maniera indiretta e inconscia il coinvolgimento dello spettatore nelle vite dei protagonisti, ed enfatizza la necessità di tacere una verità particolarmente scomoda all’interno della comunità ebraica cui appartengono.

E’ il terzo film di Lelio sulla figura della donna dopo Gloria (2013) e il già citato Una Donna Fantastica, ed è diventato ormai chiaro questo non è soltanto un tema a cui il regista cileno è particolarmente affezionato, ma soprattutto uno che risulta legato al suo tipo di cinema in maniera specifica: la società non è vista come un nemico ma come un dato di fatto, la lotta culturale e le asprezze familiari non sono mai crudeli, i comportamenti di Ronit per la sua famiglia sono visti come profondamente sbagliati ma nessuno vuole allontanarla, anzi, tutti vorrebbero che restasse. Il dilemma conflittuale è sottile e Lelio lo tratta con la dovuta delicatezza.

A parte le sequenze di sesso lesbico e gli elementi drammatici c’è qualcosa che ricorda fortemente Witness – Il Testimone di Peter Weir, nel momento in cui si capisce che le protagoniste sono fatte per stare insieme com’erano fatti per stare insieme Harrison Ford e Kelly McGillis, è semplicemente che una delle due è troppo legata al mondo cui sente di appartenere e non è pronta a lasciarselo alle spalle.

La fotografia di Danny Cohen preferisce colori spenti e freddi, fatti di toni neri, grigi e blu talmente esasperati che a volte il film sembra girato in bianco e nero. Funziona perché restituisce una sensazione di classicità azzeccata che enfatizza le emozioni delle protagoniste, anzi forse funziona talmente bene da far sembrare alcuni elementi anche fin troppo didascalici: è quel tipo di film che spiega se stesso attraverso scene didattiche, nelle quali ci sono insegnanti che parlando ai propri alunni illustrano eventi che il regista ci sta raccontando o ci ha già raccontato (Esti che discute Otello coi suoi studenti, Ronit che accende la radio e Love Song dei The Cure riassume perfettamente l’emozione del momento).

Sono ovvietà che stonano leggermente, ma per il resto funziona tutto.

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