ROMA di Alfonso Cuaron | Recensione

Pubblicato il 9 Dicembre 2018 alle 15:00

Il film arriverà su Netflix dal prossimo 14 dicembre.

E’ un film sacro, ROMA di Alfonso Cuaron. Un film sacro.

E’ sacro non solo a livello di opera d’arte, ma soprattutto nella maniera in cui tenta (riuscendo) di resuscitare un’epoca oltre che passata addirittura superata – anagraficamente e cinematograficamente – traslitterandola nella modernità. Lo fa anche in maniera coraggiosa, molto coraggiosa, e perfino un po’ provocatoria: riportare in vita un modo di fare cinema che non esiste più, che è andato perduto, attraverso un sistema (Netflix) che a detta di molti sta uccidendo quegli ultimi sprazzi di fascino che quel cinema – datato, lontano, quasi mitologico – ha fatto arrivare fino a noi.

E per quanto quest’idea possa sembrare anacronistica, irrealizzabile, arcaica e anche un po’ invasata, miracolosamente – ma ogni cosa sacra del resto è riconducibile ai miracoli – riesce sotto ogni aspetto: il trend del rivangare, a colpi di nostalgia, i tanto celebrati anni ’80 (fautori di quella cultura pop che oggi fagocitiamo ogni giorno, sotto salse che sembrano sempre diverse ma in realtà sono sempre uguali), Cuaron lo applica all’arte cinematografica, ai dettami delle correnti artistiche che più di tutte hanno influenzato il cinema moderno dal dopo guerra in poi.

Fosse uscita negli anni ’60, quest’opera, oggi sarebbe uno dei capisaldi del cinema mondiale. Cuaron sarebbe accostato al neorealismo italiano, a Federico Fellini, come J.J. Abrams è stato associato a Steven Spielberg e Stranger Things a Stephen King. Ma qui, a differenza delle odierne imitazioni pop di fenomeni pop di trenta, quarant’anni fa, Cuaron non imita mai: semmai ripropone dal suo punto di vista, che però si fa universale.

Le più grandi storie riescono ad abbracciare tutti, a toccare ogni corda in ogni angolo del mondo, perché anche se raccontate da un punto di vista personale e quindi soggettivo, fanno riferimento a situazioni, idee, valori, sensazioni o emozioni che sono di tutti, in cui tutti sono in grado di riconoscersi. E’ questo che fa Cuaron in ROMA, racconta la sua storia, che però diventa la storia di ognuno di noi.

E infatti nel raccontare il Messico dei primi anni ’70, nel raccontare la sua famiglia, i suoi fratelli, se stesso, sua madre, il suo padre assente, la sua amorevole tata, la nonna burbera e gli amici americani, mette insieme un’opera totale, che parla dei mondi e delle classi e della vita e della morte e del labile confine che le separa – che può essere un aereo riflesso in una pozza d’acqua o uno strato di plexiglass particolarmente resistente, in grado di sopportare il peso dei calcinacci caduti per una scossa di terremoto. Nel fare ciò, più che provare a realizzare un film di Fellini – citato palesemente, e a più riprese, con La Strada8 1/2 e Le Notti di Cabiria) gira un film di un Cuaron che imita Fellini.

Ci sono tutti gli elementi della sua filmografia, del resto, da Y Tu Mama Tambien (anche lì il Tenoch di Diego Luna aveva una tata, che adorava ma della quale non amava parlare) a Gravity (il Cuaron bambino che va a vedere Abbandonati nello Spazio di John Sturges), passando per la potenza delle scene di massa, i campi lunghissimi barra infiniti e le ansie della nascita de I Figli degli Uomini. Tutto è di un bianco e nero digitale superluminso e acceso, caldissimo nonostante renda il fuoco bianco come la neve e le pozze di piscio splendenti come oro colato, ogni cosa sembra fluida – che inizio ammaliante, con quegli scrosci sguazzanti – e tutto fluttua, come la cinepresa che solca le acque in burrasca dell’oceano e sembra volare incorporea. Ogni inquadratura racconta se stessa e racchiude segreti, simbolizza laconicamente, ogni dialogo è applicabile al contesto in cui è calato ma con sottigliezza spazia nascondendo altri significati.

E’ un’opera immensa, questa, che è tutto Cuaron e oltre Cuaron. E’ il cinema del passato proiettato nel futuro, che come un Tornatore mostra sale piene zeppe di persone (col proiettore che illumina lo schermo gigante con Tre Uomini in Fuga di Gérard Oury) per poi presentarsi beffardamente a noi in streaming on demand, sui televisori dei salotti o i cellulari. Prodotta, scritta, diretta, fotografata e montata da un’artista che è un uno molteplice: una madre abbandonata, una domestica vigorosa, un regista che ricorda e un bambino che disegna, e che dal fango e dalla merda guarda in alto al cielo grigio e immagina di volare.

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