Hold the Dark di Jeremy Saulnier | Recensione

Pubblicato il 2 Ottobre 2018 alle 15:00

Arriva su Netflix il nuovo film di Jeremy Saulnier, Hold the Dark, con Jeffrey Wright e Alexander Skarsgård.

E’ sempre stato un cinema molto molto piccolo quello di Jeremy Saulnier, contenuto, focalizzato, strettissimo, claustrofobico. Lui che nasce come direttore della fotografia, fin dal suo film d’esordio come regista (nel 2007 con Murder Party) ha mostrato un gusto particolare per gli interni, per le case e le sue stanze, i bagni, i corridoi.

Il bellissimo Blue Ruin era un film di auto, di abitacoli di auto, di toilette e di soggiorni, un film in cui c’erano le strade ma quelle strade alla lunga finivano col portarti sempre verso gli stessi luoghi. In Green Room, che era ancora più bello, questa ossessione barra paura degli spazi ridotti veniva ancora più estremizzata, tutto diventava più oppressivo, più macabro, più cruento.

Forse era quasi fisiologico il bisogno di cercare aria, nuovi spazi in cui allargarsi e nuovi orizzonti da contemplare, e allora questo incredibile autore che è Jeremy Saulnier lo fa col suo primo film Netflix, questo Hold the Dark, che ad oggi è, se non la migliore delle sue opere, di certo la più ambiziosa.

Basato sull’omonimo romanzo di William Giraldi, il film racconta la storia di Russell Core (il Jeffrey Wright di Westworld), un naturalista in pensione cui viene chiesto di indagare sulla misteriosa scomparsa di un bambino. A coinvolgerlo è la madre del bimbo, Medora (Riley Keough), rimasta sola dopo che suo marito Vernon (Alexander Skarsgård, che dopo Mute di Duncan Jones sembra averci preso gusto con le produzioni Netflix) è partito anni prima per l’Iraq. Ma è proprio l’improvviso ritorno di Vernon a complicare le cose…

Ovviamente il paesaggio innevato e le atmosfere da thriller investigativo sullo stile de Il Silenzio degli Innocenti non possono non far tornare in mente il recente I Segreti di Wind River, ma è chiaro fin dall’inizio che le intenzioni di Saulnier sono ben diverse da quelle di Jonathan Demme e Taylor Sheridan: l’obiettivo non è tanto il realismo quanto l’astrazione, il processo narrativo assume tratti onirici (ovviamente da incubo e non da sogno), con immagini evocative e violentissime che sembrano animate da una forza primordiale. Perfino la frontiera viene spogliata della retorica che viene usata generalmente, col vento perenne in colonna sonora e le montagne innevate onnipresenti in quasi ogni singolo fotogramma che conferiscono alle immagini un’ombra post-apocalittica.

L’unico elemento di realismo sembra venire da una cruenta sparatoria in stile Sam Peckinpah, ma per il resto ci muoviamo fra folklore locale e ipotesi di possessioni demoniache, con la regia a fuoco lento di Saulnier che dilata i tempi ed enfatizza la suspance di minuto in minuto. La trama è complessa, distorta, anche confusa a volte, ma regge l’impianto visivo e piuttosto che fornire una sola risposta chiara al risolvimento del mistero punta a suggerirne tante, tutte caotiche e al di là della comprensione umana (come i fatti che vengono raccontati).

In tutto questo emerge un attore grandissimo come Wright, che con piccole smorfie e impercettibili tic incanala tutto lo stupore e tutta l’inquietudine che investono personaggio e spettatore.

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