BlacKkKlasman di Spike Lee | Recensione

Pubblicato il 26 Settembre 2018 alle 20:00

Arriva in Italia BlacKkKlasman, nuovo film scritto e diretto da Spike Lee.

Dopo anni in cui non aveva imbroccata una giusta, finalmente Spike Lee torna a girare un film nel quale sembra che abbia effettivamente qualcosa da dire: lo fa un po’ a suo modo, mischiando il messaggio sociale al cinema puramente commerciale e soprattutto – e questa è la cosa curiosa – affacciandosi dalle parti del cinema di Quentin Tarantino.

In Bastardi Senza Gloria prima e in Django Unchained mr. Tarantino, ironicamente uno dei peggiori “nemici” di mr. Lee, (eufemismo: i due non si amano) aveva colto in pieno l’idea geniale che far del male ai nazisti – in particolare – o ai razzisti – in generale – strappargli gli scalpi, farli esplodere e insomma in breve provocargli il maggior dolore possibile nei modi più stravaganti possibili, sullo schermo, vale a dire dove interessa a noi, non fosse solo divertente, ma anche particolarmente giusto.

C’è un po’ di questo nella storia dei detective Ron Stallworth (John David Washington) e Flip Zimmerman (Adam Driver, che questa settimana è al cinema anche con L’Uomo Che Uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam), ma soprattutto c’è quel desiderio così fortemente tarantiniano di prendere un tipo ben determinato di cinema (in questo caso quella della blaxspoitation anni ’70) e riarrangiarlo in chiave moderna, introiettarlo e riproporlo al pubblico di oggi (non è un caso che i membri del ku kluz klan usino slogan trumpiani come “Make America Great Again” e “America First”).

Ed è così che grazie alla guida del più giovane e più in voga Jordan Peele, qui in veste di produttore, Spike Lee smette di fare l’ultras per i New York Knicks e prova a fare il suo film alla Quentin Tarantino, abbandonando tutte le aspirazioni drammatiche e trattando questa incredibile storia vera non tanto come un biopic che pretenda di imitare la vita, quanto un film che è consapevole di essere un film e imita altri film (altra idea tarantiniana).

E così abbiamo Alec Baldwin che scimmiotta la sua miglior maschera di Donald Trump, che negli ultimi anni al Saturday Night Live gli ha fatto riscuotere molteplici premi, abbiamo Isiah Whitlock Jr. che rifa il verso (shiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiit) al suo Clayton Davis di The Wire, abbiamo citazioni di film della blaxspoitation (da Shaft Il Detective a Superfly, i film simbolo di quella corrente cinematografica, senza dimenticare Coffy e Cleopatra Jones: Licenza di Uccidere), film simbolo della presenza cinematografica nera (Via Col Vento, film che valse a Hattie McDaniel il primo Oscar black) e quelli sulla supremazia bianca (Nascita di una Nazione di David Wark Griffith). Più in generale, inoltre, è praticamente impossibile non rivedere Danny Glover e Mel Gibson nella coppia di poliziotti formata da David Washington e da Driver, elemento che ovviamente conferisce all’opera i tratti del buddy movie alla Shane Black.

In tutto questo Spike Lee dirige in maniera impeccabile un film che semplicemente non può non piacere, e per la sua semplicità e soprattutto per la sua estrema chiarezza, a tratti anche didascalica. E’ forse questo l’unico difetto del film, che non si limita mai a diffondere il proprio messaggio e basta ma si ostina a sottolineare quel messaggio in quasi ogni singola scena, come se avesse paura che lo spettatore una volta uscito dal cinema possa dimenticarlo.

Ed è un peccato perché a tratti si rischia di essere un po’ troppo pedanti e andare in contrasto col tono spassoso e ironico conferito al film. Il discorso sociopolitico di Corey Hawkins (che interpreta l’attivista per i diritti civili Kwame Ture) è così forte, a livello dialettico e registico, che da solo sarebbe bastato.

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