Lucky di John Carroll Lynch | Recensione

Pubblicato il 29 Agosto 2018 alle 20:00

John Carroll Lynch esordisce con Lucky, l’ultimo film del compianto Harry Dean Staton.

C’è una tartaruga – anzi testuggine – all’inizio e alla fine di Lucky, film d’esordio di John Carroll Lynch: quella testuggine si è persa e vaga nel deserto, un po’ come vaga nella propria quotidianità il protagonista del film, il Lucky che è l’ultimo personaggio che mai interpreterà il mitologico Harry Dean Staton. 

In questo senso c’è una forte correlazione tra animale e personaggio, entrambi vecchissimi ma tutti e due molto vispi, il primo capace di sfuggire alle grinfie del personaggio di David Lynch (che interpreta un personaggio lynchiano come pochi, un amico del protagonista che è innamorato della sua testuggine ed è disperato dal fatto di non riuscire a ritrovarla) e il secondo che al David Lynch regista è sfuggito (realmente) poco dopo la realizzazione di Twin Peaks 3.

John Carroll Lynch (nessun grado di parentela col regista di Velluto Blu) è bravissimo a giocare su questo parallelo testuggine/Lucky, ad indugiare sui particolari del corpo decadente del leggendario attore americano, così fragile, così flaccido, così rugoso, con l’andatura claudicante e stortissima e per questo bellissimo e dolcissimo, in tutta la sua bruttezza così naturale. E’ il destino che aspetta tutti noi, che a passo di testuggine – o tartaruga – ci dirigiamo inesorabilmente verso l’unica fine che ci aspetta al termine del sentiero chiamato Vita e proprio come la testuggine del film ci lasciamo dietro i nostri cari. Che, come il personaggio di Lynch, dovranno imparare a farsene una ragione.

E’ tutto così il film di Carroll Lynch, sulla morte e sulla vita, e soprattutto sulla fine della vita, sulla quotidianità di una vita che sta finendo; e quindi sveglie presto, yoga, sigarette a non finire, una tazza di latte e un frigorifero vuoto, insulsi programmi alla tv, la tavola calda per la colazione e il bloody mary al bancone del bar notturno prima di andare a letto, chiacchiere con amici e conoscenti e ogni tanto una visita dal dottore per controllare che tutto vada ancora bene, che tutto sia ancora sotto controllo.

Ricorda un po’ lo splendido Paterson di Jim Jarmusch, con quel protagonista interpretato da Adam Driver che viveva le sue giornate, una dopo l’altra: c’è una sorta di raffinata mestizia nel modo in cui l’esordiente Lynch tratta l’argomento e soprattutto la vita del suo protagonista (è sempre interessante quando un attore famoso decide di lanciarsi alla regia), fragile e ironico e arido e duro come un eroe western arrivato alla fine dei suoi giorni, arido e duro come il deserto (geografico ed emotivo) che lo circonda.

Noi seguiamo Lucky nei suoi ultimi giorni, passo dopo passo, e lo guardiamo muoversi e trascinarsi dietro la sua croce come una testuggine fa col suo guscio, il quale – come ci verrà detto – alla fine diventerà la sua bara. Non ci verrà detto qual è la croce del protagonista, o quale sia stata in passato (mai avuto moglie, mai avuto figli, ha fatto la Seconda Guerra Mondiale ma non ha mai combattuto perché era un cuoco), né ci verrà spiegato a chi rivolge i suoi insulti (merde!) ogni volta che passa nei pressi di quello che sembra un cantiere (forse li rivolge direttamente al pubblico, chissà: c’è un velatissimo tono di surrealismo nell’opera).

Ma in fin dei conti non importa, perché è semplicemente fantastico rimanere al suo fianco fino a quando John Carroll Lynch ci permette di farlo.

 

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