Amiche di Sangue di Cory Finley | Recensione

Pubblicato il 1 Agosto 2018 alle 15:00

Il film di debutto di Cory Finley è un noir che intreccia i topoi di Alfred Hitchcock alla brutale freddezza emotiva dei drammi di Yorgos Lanthimos.

Evoca tutto l’amore del mondo per i thriller di Alfred Hitchcock Amiche di Sangue, film d’esordio dello statunitense Cory Finley con protagoniste l’Anya Taylor-Joy di The Witch e Split e l’Olivia Cooke vista recentemente in Ready Player One di Spielberg.

Finley, che viene dal teatro e che proprio per il teatro aveva scritto la prima bozza della sceneggiatura del film, si ispira tantissimo alle opere da noir domestico incentrate sulla ricerca dell’ “omicidio perfetto” come Nodo alla Gola, Il Delitto Perfetto o anche Psycho, ma lascia da parte volontariamente l’elemento principale dei thriller (la suspense) per buttarsi in quello che a tutti gli effetti diventa uno studio psicologico sulle due protagoniste. Ne esce fuori un film glaciale, elegantemente squilibrato, che sembra figlio dei drammi surreali emotivamente brutali del greco Yorgos Lanthimos.

Lily (Taylor-Joy) e Amanda (Cooke) sono due coetanee del Connecticut che si conoscono dai tempi delle scuole medie ma che non si sono mai frequentate come due vere amiche. L’occasione per rimediare arriva quando la prima dovrà aiutare la seconda a superare un test d’ammissione per il college, e le due ben presto scopriranno di avere molte cose in comune: nonostante abbiano sempre vissuto nell’agio, infatti, entrambe hanno dovuto imparare a convivere con dei profondi traumi emotivi.

Insieme, un giorno, le due decideranno di assassinare l’autoritario e crudele patrigno di Lily, assoldando lo spacciatore locale Tim (Anton Yelchin, qui alla sua ultima interpretazione prima della prematura scomparsa avvenuta nel 2016).

Proprio Yelchin paradossalmente diventa lo spunto meta-testuale di uno dei discorsi più interessanti proposti da Finley nel film, ovvero la capacità del cinema (e dell’arte in generale) di preservare i propri attori oltre la morte, accogliendoli in un mondo che va ben al di là di quello mortale riservato agli esseri umani.  Il tema viene affrontato in due sequenze, una che cita il noir del 1949 Due Ore Ancora di Rudolph Maté e l’altra che ha come sottofondo La Piccola Principessa di Walter Lang (1939), e fa tenerezza il modo in cui il personaggio di Yelchin non fa che parlare di un futuro pieno di nuove e migliori possibilità, quello stesso futuro che l’attore non avrà mai.

Al di là di questo, comunque, sorprende l’autorità con la quale l’esordiente Finley riesce a gestire il set e lo spazio cinematografico a sua disposizione, utilizzando ogni dettaglio per esprimere le tante condizioni di disagio psicologico ed emotivo delle due giovani protagoniste, dalle quali il regista è il primo ad essere intimorito e affascinato.  temere

Le carrellate e i dolly, così come le continue messe a fuoco, sembrano le tecniche di uno studio quasi documentaristico nella sua ossessività compulsiva: con la splendida collaborazione di Lyle Vincent (dop di A Girl Walks Home Alone at Night e The Bad Batch della regista iraniana Ana Lily Amirpour) Finley indaga nelle anime di Lily e Amanda alla ricerca di un barlume di luce, di qualcosa di autentico e che brilli davvero, al di là del lusso esagerato che ricopre le loro vite. Lo cerca in continuazione, dal primo all’ultimo minuto. Ma non lo trova mai. E il film non si intenerisce nel suo incedere, anzi, diventa sempre più duro e spiacevole.  Questo è grande cinema.

 

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