Castle Rock | Recensione
Pubblicato il 15 Settembre 2018 alle 15:00
La recensione della prima stagione di Castle Rock, la serie Hulu ispirata alle opere di Stephen King.
L’universo narrativo di Stephen King, in eterna espansione tra romanzi, racconti e ovviamente adattamenti live-action sia cinematografici che televisivi, raggiunge la sua summa in Castle Rock, una sorta di mix fra Ready Player One e La Torre Nera che re-immagina le più celebri storyline dello scrittore del Maine attraverso uno sguardo originale.
La serie, prodotta da J.J. Abrams (che già aveva creato l’altra recente e buona serie kinghiana 22.11.63, con protagonista James Franco), è stata creata da Sam Shaw, il cui amore per il materiale letterario (ma anche quello cinematografico) originale si vede fin dai primissimi istanti del primissimo episodio: l’operazione commerciale non si discosta molto da quella con cui Noah Hawley ha elaborato la sua serie televisiva Fargo partendo dall’omonimo film dei fratelli Coen, ed è esattamente in quel modo che Castle Rock riprende atmosfere, tematiche, luoghi geografici e personaggi della mitologia del Re dell’Horror per poi riarrangiare tutto a proprio piacimento, usando gli stessi pezzi per creare un puzzle differente.
La storia – di cui non vi sveleremo nulla così da non rovinarvi la sorpresa – è ambientata nell’omonima cittadina immaginaria che tante volte è comparsa nei libri o nei film di King, e ruota intorno al mistero dell’identità del Prigioniero, un ragazzo segregato per anni in una stanza nascosta nelle viscere del carcere di Shawshank.
Come nel recente sci-fi di Steven Spielberg e la serie Netflix Stranger Things (che delle opere di Spielberg e di King è figlia legittima), i fan si potranno divertire a rintracciare un numero interminabile di easter-egg, senza però che la caccia ai riferimenti più o meno velati che Shaw si diverte a disseminare qua e là infici in qualche modo sulla godibilità di una vicenda intrigante e profondamente inquietante, diretta magistralmente da tutti gli autori coinvolti (c’è anche Ana Lily Amirpour, la regista iraniana degli splendidi horror A Girl Walks Home Alone At Night e The Bad Batch). Giocata tutta su un encomiabile equilibrio di suspance e sentimento, Castle Rock affronta con coraggio e bravura cinematografica (la fotografia, sempre sui toni del blu, conferisce ad ogni inquadratura una malinconia tremenda) una serie di importantissimi e delicatissimi temi umanisti come le malattie mentali, la morte, la vecchiaia e soprattutto la memoria, tutti riletti in chiave horror e associati agli argomenti cardine della poetica letteraria di King, come il fanatismo religioso e il fascino morboso per il sovrannaturale.
Almeno due gli episodi straordinari, The Queen (il settimo) ed Henry Deaver (il nono), che giocano sulle lezioni di sceneggiatura che Damon Lindelof ha impartito alla televisione in Lost e The Leftovers, la prima giocando con le nozioni di spazio e tempo e la seconda cambiando magistralmente le carte in tavola con un incredibile colpo di scena.
Letteralmente infinite le citazioni a romanzi, film e serie tv precedenti, a cominciare da Sissy Spacek (che fu la Carrie per Brian De Palma), Bill Skarsgard (Pennywise nell’IT di Andy Muschietti) e Scott Glenn, che interpreta il celebre sceriffo Alan Pangborn già impersonato da Ed Harris in Cose Preziose di Fraser Clarke Heston e da Michael Rooker ne La Metà Oscura del compianto George Romero. C’è anche la splendida Jane Levy de La Casa e Man in the Dark di Fede Alvarez, che interpreta un personaggio profondamente legato al mondo di Stephen King … ma sta a voi scoprire quale.