Hereditary – Le Radici del Male di Ari Aster | Recensione

Pubblicato il 27 Luglio 2018 alle 20:00

Arriva in Italia il nuovo horror della A24, Hereditary, scritto e diretto dall’esordiente Ari Aster.

C’è qualcosa di profondamente sbagliato in Hereditary – Le Radici del MaleE la cosa magnifica è che lo si può capire fin dal primissimo, innocuo frame, tanta è la bravura dell’esordiente Ari Aster: dopo tre cortometraggi, l’autore statunitense viene reclutato dalla A24 (casa di produzione che, dalla sua nascita nel 2013, non ne ha sbagliata una) per scrivere e dirigere un’opera personalissima e sulla quale – cosa stupefacente per un regista alla sua prima prova – dimostra di avere pienissimo e assoluto controllo.

Dopo It Follows e The Witch, Hereditary riesce a rileggere in maniera perfettamente focalizzata e originale un sottogenere dell’horror (David Robert Mitchell si era ispirato allo slasher, Robert Eggers, anche lui esordiente all’epoca, ai film di stregoneria), quello dello spiritismo – con conseguente possessione – legandolo superficialmente ai temi della perdita, del crollo psicologico ed emotivo e del superamento del lutto. Ma metterla così sarebbe riduttivo.

In realtà il grande guizzo di Aster è quello di legare l’horror al dramma, di parlare della possessione demoniaca utilizzando le stesse corde narrative che usa per riflettere sulla possessione familiare, sul nido materno e le tragedie che possono portarlo allo sfaldamento. Per tutta la prima parte Hereditary sembra un film di Ingmar Bergman, per come è in grado di illustrare allo spettatore le psicologie dei personaggi, tutte contrastanti fra di loro, e per come questa famiglia protagonista – apparentemente unita – inizi irrimediabilmente a dividersi. Dopo di che, proprio come The Witch, dalla seconda metà in poi partirà un crescendo terrificante ed implacabile che fino ai titoli di coda non lascerà tirare il fiato a nessuno, né al pubblico né tanto meno ai personaggi.

La peculiarità della regia di Aster è la scaltrezza con la quale riesce a mostrare l’orrore: sempre in campo, magari sullo sfondo ma sempre presente (come faceva Mitchell in It Follows, Alfredson in Lasciami Entrare o più recentemente il britannico A Ghost Story) e quindi doppiamente inquietante e pericoloso. Se James Wan è il più bravo ad impostare la scena per prepararla in modo da alzare l’aspettativa in vista del jump-scare, nell’horror indipendente si tende ad enfatizzare la minaccia, a renderla presente nell’inquadratura (visibile al pubblico, ma nascosta al personaggio), accrescendo la suspance in maniera esponenziale.

Era il meccanismo preferito di Hitchcock, e Aster dimostra di conoscerlo pienamente e dal terzo atto ci gioca come vuole, portandolo in territori che l’horror raramente va ad occupare: tutta la tensione accumulata nella prima parte, di impostazione, preparazione e studio psicologico dei personaggi, esplode nei minuti finali quando i protagonisti iniziano a rendersi conto dei pericoli che il pubblico aveva avvertito fin da subito.

Il film di Aster è freddo, austero e spietato, in primis nei confronti dei suoi protagonisti – ricorda molto la maniera che hanno Lanthimos, Haneke, o addirittura Cronenberg di abbattersi implacabilmente contro i propri personaggi – e assolutamente kubrickiano nel modo di concepire la messa in scena – sempre ordinatissima, in grado di suscitare immagini inquietanti già a partire dai set – ma soprattutto ha la capacità di evocare paure primigenie insite nell’animo umano e che vanno ben al di là della suggestione per il sovrannaturale.

Senza dimenticare Toni Collette, la cui interpretazione è la prima prova da Oscar dell’anno. Speriamo che l’Academy, fra sei mesi, si ricordi di lei.

 

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