Una Luna Chiamata Europa di Kornél Mundruczó | Recensione

Pubblicato il 13 Luglio 2018 alle 20:00

Da Cannes 2017 arriva in Italia Una Luna Chiamata Europa, film ungherese che mescola il tema del supereroe con quello dell’immigrazione.

A oltre un anno di distanza dalla prima mondiale nel corso del settantesimo Festival di Cannes arriva in Italia Una Luna Chiamata Europa (titolo internazionale Jupiter’s Moon) dell’ungherese Kornél Mundruczó: assolutamente folle, visionario, allucinato e soprattutto problematico, il film cerca di unire il filone del supereroe alla distopia politica nel tentativo di raccontare una fantascienza non tanto proiettata verso il futuro (come spesso accade con la fantascienza) quanto ancorata al nostro presente, le cui bruttezze e ingiustizie (il problema dei flussi migratori, la demagogia religiosa) diventano chiaramente gli obiettivi principali verso cui l’opera indirizza il suo spirito di denuncia.

Lo spunto più interessante del film è sicuramente questo, ovvero l’idea di raccontare la distopia come un dato di fatto legato ai nostri tempi e non come qualcosa che deve arrivare o arriverà; le atrocità del mondo riflesso nel film sono quelle che vediamo in uno specchio, e non quelle predette da chissà quale visione futuribile. Non a caso il film richiama le cupe atmosfere de I Figli degli Uomini, il meno avveniristico fra gli sci-fi moderni: la seminale opera del premio Oscar Alfonso Cuarón è chiaramente la fonte di ispirazione principale per il regista ungherese, quella cui Una Luna Chiamata Europa guarda come modello da imitare, e prova ad imitarla in tutto e per tutto – dai colori degli ambienti al vestiario dei personaggi, dalle scene d’azione ai piani sequenza – sottraendo però la variante temporale e aggiungendo quella superomistica (declinata non verso il cine-comimc da mantello e lotta alla criminalità ma in salsa pseudo-religiosa: le abilità del protagonista saranno scambiate per poteri divini).

Alcuni rifugiati siriani stanno provando ad introdursi illegalmente in Europa attraversando il confine con la Bulgaria: la polizia di frontiera, però, senza pensarci due volte inizia ad aprire il fuoco verso le imbarcazioni clandestine. Le persone a bordo, si rendono presto conto che gli agenti non stanno sparando per avvertire.

Nella mattanza generale, come un segno dell’Onnipotente, un ragazzo miracolato e miracoloso inizia a librarsi a mezz’aria, completamente inconsapevole di come stia effettivamente compiendo quel prodigio. Il dottore che lo avrà in cura vedrà in lui un angelo, ma soprattutto un mezzo sicuro per fare soldi, un santo da vendere ai ferventi cristiani che sperano che Dio mandi loro un segno di speranza per illuminare le grigie condizioni in cui versano. Le autorità, al contrario, vedranno in lui una minaccia da stanare ed eliminare al più presto.

Ecco quindi che la società si mette a braccare il miscredente sovversivo (il dottore, ateo, anzi proprio anti-religioso, cinico e nichilista come pochi ma assolutamente tenace nel perseguire il suo obiettivo egoistico) per schiacciare ogni speranza di futuro (il ragazzo, insicuro e sconvolto, incerto su quale sia il suo posto in questo mondo; prerogativa, tra l’altro, di qualsiasi ragazzo), e forse ce la farà, o forse no. Di certo c’è che è divertente lasciare che il film racconti se stesso, in questa sua strana quanto rarissima mescolanza fra cinema d’autore e cinema commerciale, che funziona quando va a cento allora, un po’ meno quando prova a ragionare.

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