Die Hard – Trappola di Cristallo di John McTiernan: compie 30 anni la pietra miliare dell’action

Pubblicato il 15 Luglio 2018 alle 13:00

Trent’anni fa arrivava nei cinema Trappola di Cristallo, di John McTiernan: in occasione di questo importante anniversario, vi proponiamo una retrospettiva sul seminale action americano.

Non ce ne voglia John Landis, ma Die Hard – Trappola di Cristallo di John McTiernan è probabilmente il miglior film natalizio mai realizzato. Che, detta così, sembra una stupidata. Ma alla fine dell’articolo la penserete diversamente.

Uscito trent’anni fa e accompagnato da una serie di critiche miste – nonostante 4 nomination agli Oscar, tutte in categorie tecniche – il film, che lanciò la carriera di Bruce Willis rendendolo di punto in bianco una delle persone più famose del mondo nonché nuovo beniamino dell’action americano (dopo Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, che tra l’altro era reduce dal precedente successo di McTiernan, un certo Predator), nel corso degli anni ha assunto un valore sempre più inestimabile nel contesto del cinema action americano: capace di far ricredere chi all’epoca aveva storto il naso e in grado di esaltare ancor di più chi l’aveva saputo apprezzare fin dal principio, Trappola di Cristallo è diventato il punto di riferimento del cinema action americano (e non solo).

A livello narrativo, i suoi meriti sono pochi: la trama è semplice e lineare, scandita da un’azione frenetica, divertente ed entusiasmante, e pensata per sottolineare di volta in volta le differenze fra il protagonista (il John McLane di Bruce Willis) e l’antagonista (l’Hans Gruber del compianto Alan Rickman) così che lo spettatore medio, l’average Joe americano, potesse comprendere senza alcuno sforzo entrambe le personalità, per quanto spiccate, antitetiche e conflittuali (l’eroe per caso, totalmente estemporaneo – McLane non doveva neppure trovarsi in quel palazzo, come se il film volesse dire allo spettatore che chiunque può essere in grado di fare quelle cose, se dotato di quella stessa tenacia – e la sua nemesi elegante, filosofa, istruita e colta, il rapinatore col piano perfetto e un obiettivo misterioso).

A livello interpretativo, però, McTiernan va a giocare su tutto un altro campo: lui, che durante i corsi all’American Film Institute era costretto ad imparare a memoria, e per memoria intendiamo frame by frame, tutti i film del  neorealismo nostrano (da Fellini a De Sica, passando per Visconti, Antonioni e Rossellini) di sotto-testi cinematografici ne sapeva più di qualcosa, e Trappola di Cristallo ne è strabordante.

Il contrasto che spacca in due il mondo occidentale, suddiviso fra Stati Uniti ed Europa (due realtà differenti e contrastanti rappresentate dall’americano medio McLane e dal villain tedesco Gruber) diventa una sorta di action meta-cinematografico che spesso e volentieri non si risolve a colpi di pistola (anche con quelli, per carità), ma per la maggior parte del film diventa un vero e proprio scontro verbale. I due personaggi, con intenti e motivazioni ben distinte, dialogano in una battaglia di walkie-talkie che diventa uno scontro di giustificazioni, ironie e prese in giro, una giostra verbosa stracolma di disinformazione, mezze verità e inganni atte a vendere all’altro delle realtà illusorie.

Tutto questo per dimostrare che la supremazia europea nei confronti degli americani è ingiustificata: Gruber ha una conoscenza troppo superficiale della cultura statunitense, e nonostante voglia dimostrare il contrario (e quasi ci riesce, manipolando con facilità le forze dell’ordine – istituzioni – e prendendosi gioco di loro) dovrà vedersela con la vera essenza degli Stati Uniti, e cioè l’uomo comune. L’idea che un gruppo di rapinatori tedeschi vada a giocare in trasferta a Los Angeles per compiere una rapina milionaria, poi, gioca chiaramente sull’idea che secoli prima l’America, per i popoli europei, non fosse altro che un mondo da conquistare, colonizzare e saccheggiare.

Un altro tema fondamentale, ma strettamente legato alla coscienza patriottica statunitense, è la lotta fra individualismo e collettivismo: l’uno contro tutti alla base tanto del sogno americano quanto, di riflesso, del cinema americano classico (Mezzogiorno di Fuoco, La Parola ai Giurati) in Die Hard diventa non solo lotta per la sopravvivenza, ma anche e soprattutto una lotta personale per l’affermazione ed espressione della propria morale: a trainare Gruber c’è l’ambizione, la sete di potere, l’avidità; McLane va avanti per inerzia solo ed esclusivamente non per salvare la sua nazione, non per restare fedele al suo distintivo, ma per salvare sua moglie; dalla quale è pure divorziato.

Ovviamente l’amore può essere una debolezza, soprattutto se il tuo nemico è così scaltro e subdolamente perfetto come l’indimenticabile Hans Gruber, e il tallone d’Achille di questo moderno Achille a stelle e strisce (o forse meglio dire Ulisse, dato che il suo obiettivo è quello di tornare dalla sua famiglia) diventa ovviamente il suo legame affettivo con la moglie. Il film però sembra suggerire che le relazioni e/o alleanze basate sul perseguimento del potere a lungo andare si rivelano meno efficaci rispetto a quelle basate sulla stima reciproca, sul rispetto e sulla fiducia. In una parola, sull’amore.

Un vero e proprio canto di natale, insomma. Chiuso, inoltre, dall’inno cristiano Ode alla Gioia di Beethoven, che fa partire i titoli di coda e rimanda a quella simbologia religiosa che per tutto il film – a partire dalla critica al consumismo natalizio – accompagna la (dis)avventura di McLane.

E ricordate: se potete andate in California, vedrete che bello; vi divertirete da matti!

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