Westworld 2×06: “Phase Space” | Recensione
Pubblicato il 4 Giugno 2018 alle 20:30
“La viltà è un distintivo di latta.”
Con un episodio pieno di poesia, violenza e colpi di scena, la seconda stagione di Westworld cambia definitivamente le carte in tavola per i suoi protagonisti. Il “gioco” di Ford inizia a trascendere i limiti geografici (se ce ne sono) dell’immersivo parco giochi trasformandosi lentamente ma sempre più inequivocabilmente e definitivamente in una vera e propria guerra a Delos. Una guerra combattuta per tanti anni, lungo tantissimi spazi e attraverso un numero esorbitante di pedine, una guerra di cui noi riviviamo i ricordi, che ci travolgono a fiume.
Come Jonathan Nolan e suo fratello Christopher hanno già raccontato in Memento, il fondamento stesso dell’esistenza sono i ricordi, i momenti che appartengono al passato, e di come la percezione che abbiamo di essi nel presente possa stabilire in maniera consequenziale le nostre azioni future. Qualche anno dopo, in Inception, i Nolan spiegavano quanto i ricordi potessero cambiare radicalmente le persone e le loro emozioni, e quanto fossero interconnessi reminiscenze e sentimenti (al punto che, alterando i primi si agiva direttamente sui secondi).
Nella serie tv HBO Jonathan Nolan ha preso quelle stesse idee e ha voluto legarle al tema dell’intelligenza artificiale, provando ad analizzare come i ricordi (veri o artificiali) influenzino le emozioni, e come le emozioni determinino il carattere di una persona (vera o artificiale) stabilendone l’indole comportamentale.
La cosa interessante però è che lo spettatore di Westworld sa perfettamente che i ricordi di determinati personaggi sono innesti, elementi narrativi inseriti nel back-up della loro memoria al fine di creare un background coerente per la loro storia, e questo fa si che alcuni punti fondamentali dello svolgimento della serie risultino profondamente anticlimatici. Prendiamo la storyline di Maeve come esempio.
Dall’inizio della seconda stagione – o meglio, dalla fine della prima – il personaggio di Thandie Newton ha intrapreso un pericoloso viaggio attraverso Westworld (che l’ha portata addirittura nei meandri di Shogun World) per ritrovare sua figlia. Noi sappiamo che non è sua figlia, che quella bambina è solo un altro androide costruito e scritto per recitare la parte di sua figlia, e infatti in questa puntata, quando finalmente assistiamo al tanto atteso ricongiungimento, non possiamo fare a meno di pensare a quanto sia poco autentico, e le emozioni trasmesse dagli sguardi della straordinaria attrice che dà il volto a Maeve diventano una rappresentazione astratta di quell’emozione umana che si sta cercando di trasmettere. In qualsiasi altra serie tv o film quell’emozione sarebbe stata al centro della scena. Qui no.
La stessa cosa accade prima, durante il duello fra i samurai Musashi e Tanaka. Citazione dei Monty Python a parte, la sequenza, più che essere integrata nello svolgimento della trama principale della serie, sembra una messa in scena per accontentare lo spettatore, il balletto in cui i due androidi devono esibirsi per soddisfare gli ospiti del parco. La sensazione che restituisce dipende esclusivamente dalla maniera in cui ci si approccia a questa serie: è legittimo percepirla come banale e sbrigativa, ma considerando Westworld dal suo punto di vista meta-narrativo assolutamente unico nel palinsesto televisivo attuale, allora tutto diventa assolutamente organico e le “recite” dei personaggi diventano dettagli narrativi per aumentare l’immersione dello spettatore nel contesto di quel mondo specifico.
Non sarei affatto stupito se, con l’andare del tempo, si scoprisse che Westworld non sia altro che un luogo virtuale, un mondo artificiale messo a disposizione degli utenti (noi) al fine di trasportarli in un’altra realtà. E’ questa la mia personale lettura dell’opera, una grande metafora sul senso dell’intrattenimento e di quanto la sofferenza e le tribolazioni di personaggi immaginari appaghi il nostro bisogno di evasione. Che Westworld non sia un luogo fisico ma una realtà digitale, poi, spiegherebbe come mai il parco non abbia limiti geografici: non esiste nulla all’infuori di Westworld, c’è solo quel mondo, coi suoi tanti mondi all’interno; fuori ci siamo noi, oltre lo schermo, che torniamo online ogni settimana quando la serie va in onda.
Letta così, ogni imperfezione non è che un dettaglio utile a rendere più credibile l’esperienza.