Solo: A Star Wars Story di Ron Howard – il western in una galassia lontana, lontana

Pubblicato il 24 Maggio 2018 alle 14:30

Il film è attualmente in programmazione nelle sale italiane.

Non più Han Shot First ma Han’s First Shot. Perché dopo la visione di Solo: A Star Wars Story si ha la fortissima sensazione che il film di Ron Howard sia solo (battuta) il primo colpo di una nuova saga griffata Star Wars che proseguirà negli anni a venire andando a braccetto con la nuova trilogia scritta e diretta da Rian Johnson.

La storia delle origini del celebre contrabbandiere e autoproclamato miglior pilota della Galassia sembra infatti ancora tutta in divenire (almeno due archi narrativi di questo film sono esplicitamente rimandati al prossimo capitolo) e ci sono ancora parecchie vicende e avventure da raccontare su Han prima di ricollegarsi alla celebre scena della taverna di Mos Eisley, quando il personaggio di Harrison Ford venne introdotto al mondo in Una Nuova Speranza.

Il film di Ron Howard è riuscito nell’arduo – e a dirla tutta parecchio infame – compito di tracciare un nuovo ed inedito sentiero per Han Solo, che un po’ come nella nuova saga prequel di Alien voluta da Ridley Scott, racconterà ciò che è stato per permetterci di tornare a guardare ciò che già sapevamo con nuove consapevolezze.

A ben pensarci, l’identità del film pare essere proprio questa: non tanto quella di un vero e proprio stand-alone (come invece fu per Rogue One) quanto piuttosto quella di primo capitolo di una saga interamente dedicata ad Han Solo, Chewbecca, Lando Calrissian e Qi’ra. Anzi, rispetto a Rogue One, la Lucasfilm ha deciso di giocare su un terreno completamente diverso, e a ragione.

Nello stand-alone dedicato allo scalcinato manipolo di ribelli che riuscì a rubare i piani della Morte Nera in quella eroica ed appassionante missione suicida che Gareth Edwards ci ha raccontato nel 2016, il pubblico scopriva nuovi personaggi, si interessava alle loro storie nel corso del film, si commuoveva nel vederli immolarsi per una causa più grande (il concetto di sacrificio, di “morte mia vita tua” era letteralmente al centro dell’opera, ne era il cuore pulsante) e il pregio più grande di quel film è stato proprio quello di essere riuscito, in poco più di due ore, a far appassionare i fan della saga a protagonisti invisibili di cui non si era mai sentito parlare prima e di cui non si sentirà parlare in futuro.

Con Solo la questione era diametralmente opposta. Tutti i fan della saga – e più in generale gli amanti del cinema – conoscono la figura di Han Solo, una delle più importanti e grandi icone della cultura pop del Novecento (forse la più grande, insieme a Indiana Jones). E la conoscevano da molto tempo, da ben quarant’anni prima che il film di Ron Howard entrasse in produzione. Quarant’anni nel corso dei quali la figura mitologica di Han Solo ha saputo cristallizzarsi – o forse meglio dire carbonioizzarsi – nell’immaginario di tutto il mondo, e cristallizzarsi così indissolubilmente che la distinzione fra attore e personaggio è andata pian piano a scemare. Han Solo è Harrison Ford ed Harrison Ford è Han Solo.

La Lucasfilm questo lo sapeva benissimo, e infatti l’idea di un unico film sulle avventure del giovane Han Solo di Alden Ehrenreich è stata scartata fin da subito, se mai è stata presa in considerazione (guarda caso le ipotesi di prossimi sequel sono state “rivelate” nella fase promozionale del film). Han Solo non è Jyn Erso, o Cassian Andor, o Saw Guerrera. Così come Alden Ehrenreich non è Harrison Ford. I fan hanno bisogno di tempo per accettare che Han Solo non abbia più il volto di Harrison Ford, lo stesso tempo di cui avrà bisogno il giovane Alden Ehrenreich per diventare l’Han Solo che tutto il mondo già conosce.

L’Han Solo di questa saga non è l’Han Solo di Una Nuova Speranza, de L’Impero Colpisce Ancora, de Il Ritorno dello Jedi, né tanto meno la figura semi-leggendaria idolatrata da Rey e Finn ne Il Risveglio della Forza (“Tu sei il pilota che ha percorso la rotta di Kessel in tredici parsec?!; “Dodici!”). Questo Han Solo deve ancora diventare quell’Han Solo, e lo diventerà nei prossimi capitoli della sua storia, una storia che deve ancora essere scritta (come le memorie che il Lando Calrissian di Donald Glover si diverte a registrare fra una missione e l’altra).

E chi meglio di Lawrence Kasdan per scriverla e raccontarla, lui che Han Solo l’ha praticamente creato prendendone le redini da Episodio V. Il mitico sceneggiatore di Miami è andato indietro, prima dalle vicende narrate da Lucas nel ’77, prima degli eventi della battaglia di Yavin, prima di Jabba e dell’incontro con Luke e Obi-Wan su Tatooine, affondando nelle radici del personaggio per cavarne l’essenza. Ed è questo che è Solo: A Star Wars Story, un film essenziale nel senso di basilare, che parte dalla base su cui Han Solo è stato eretto e la amplia, aggiungendone i dettagli.

Quella base è, ovviamente, il western movie.

Il cinema è arte ma è anche industria, e l’arte dell’industria è la diversificazione. Lucasfilm con Star Wars sta diversificando, portando avanti la saga dei Jedi nelle tre trilogie principali e (in attesa di scoprire di cosa tratteranno i film di Johnson) sperimentando al di fuori di essa. Se Rogue One è stato un war movie ambientato nell’universo narrativo di Star Wars, Solo è in tutto e per tutto un western crepuscolare che strizza l’occhio al gangster movie e al genere caper (arrivando perfino a scimmiottare il poker movie).

Non è epico perché non vuole esserlo, non vuole commuovere come Rogue One, a raccontare una storia così tragica e destabilizzante come quella del film di Edwards non ci prova neppure. E’ un film d’avventura semplice ma mai banale, assolutamente non perfetto ma le cui ambizioni sono rimandate ai prossimi capitoli e che qui si limita a raccontare una prima peripezia vissuta a perdifiato, che si snoda attraverso tre sequenze memorabili (inserite nei primi due densissimi atti) inframmezzate da tanto divertimento scapestrato e chiuse da un finale a sorpresa che sembra urlarci “aspettate, abbiamo ancora parecchie cose da dirvi sul conto di questo ragazzaccio.”

E quando partono i titoli di coda il desiderio di restare a bordo del Millennium Falcon è più intenso che mai, perché ci sembrerà di aver vissuto il film in appena 12 parsec. Speriamo che l’attesa per il prossimo capitolo duri anche meno.

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