Ultimo Tango a Parigi di Bernardo Bertolucci: il film-scandalo torna nei cinema italiani
Pubblicato il 23 Maggio 2018 alle 20:00
Dopo lo speciale restauro voluto dal Centro Sperimentale di Cinematografia, il film scandalo di Bernardo Bertolucci torna nelle sale italiane per un evento speciale il 22 e il 23 maggio.
Prima di Novecento e degli Oscar per L’Ultimo Imperatore (ad oggi l’unico regista italiano ad essere stato premiato dall’Academy con la statuetta per la miglior regia) ma subito dopo il successo ottenuto con Il Conformista (1970), il regista parmigiano Bernardo Bertolucci nel 1972 aveva sconquassato il sonnolento equilibrio del mondo del cinema (negli USA stavano iniziando a germogliare i primi semi della New Hollywood) con il dramma erotico Ultimo Tango a Parigi.
Divenuto celeberrimo a causa delle numerose battaglie legali e i tanti procedimenti penali avviati dalla censura per bandirlo e addirittura condannarlo al rogo, Ultimo Tango a Parigi racconta la storia di Paul, un misterioso americano vittima di depressione che vive da anni a Parigi, e Jeanne, una ventenne appena trasferitasi nella ville lumiere. Mentre stanno visitando lo stesso appartamento in affitto i due vengono attratti in maniera irresistibile e brutale l’uno dall’altro: dopo aver deciso di condividere le spese dell’appartamento per farne il loro rifugio dal mondo, inizieranno una relazione segreta basata esclusivamente sui rapporti fisici, promettendosi a vicenda di non rivelare mai e poi mai dettagli personali come nomi o ricordi passati.
La potenza del film di Bertolucci, al di là dell’innovativa e provocatoria resa scenografica della sessualità, risiede nella sua anima emozionale e romantica, fra le più pregnanti della storia del cinema. Anima incarnata dalla figura di Marlon Brando (nessun altro attore sarebbe stato in grado di esprimere in maniera così naturale una miscela tanto estrema di rudezza e affettuosità, di cuore e desiderio animalesco) il cui Paul è l’emblema intorno al quale il regista sviluppa il tema principale del film, e cioè il bisogno di affetto.
Straziato dal recente suicidio della moglie – una donna che lui amava e dalla quale era continuamente tradito – il protagonista è alla costante ricerca del contatto umano, dell’affetto degli altri. Questo lacerante bisogno è il frutto di una vita dura – “Ho sempre fatto fatica a trovare ricordi felici” dirà in uno dei monologhi più celebri del film – oggi ridotta ad un disperato grido d’aiuto che, incapace di essere espresso con le lacrime o a parole, viene esternato nella dissoluzione sessuale, simbolo di ribellione al conformismo della società, quella stessa società dalla quale si nasconde (non ha amici, gestisce un hotel/bordello per drogati e prostitute).
La storia pensata da Bertolucci è così semplice e lineare, così scarna di dettagli, che l’unica cosa sulla quale il film si concentra è l’evoluzione del personaggio di Brando (che, come al solito, rifiutò di imparare le sue battute: spesso improvvisava, o al limite disseminava qua e là per il set dei foglietti appuntante le frasi da recitare). Si ha l’impressione che Jeanne sia nel film solo per la fortuita coincidenza di essere entrata in quell’appartamento l’attimo dopo Paul, come se Bertolucci iniziasse ad interessarsi a lei nel momento in cui la ragazza finisce nel raggio gravitazionale del protagonista, un enorme buco nero la cui massa inghiotte ogni cosa. E così più lei gravita intorno a lui, più il regista approfondisce la sua vita, cercando di capire come e perché una ragazzina appena ventenne sia stata in grado di suscitare le attenzioni di un uomo così intimamente spezzato, come se Bertolucci volesse scoprire il punto esatto in cui la depressione lascia il posto alla rinascita.
Ma una rinascita potrebbe non essere possibile, e il film è sorprendente nella sua capacità di cambiare pelle, trasformandosi gradualmente da favola erotica a dramma surreale fino a tramutarsi in tragedia (viene citata esplicitamente Ofelia dell’Amleto nella versione pittorica di John Everett Millais). Una tragedia che gira esclusivamente intorno al personaggio di Marlon Brando, appartenente alla generazione di chi “entrando in un bar, si sarebbe rivolto ad una come te chiamandola ‘pupa’ (splendida battuta che richiama i successi giovanili dell’attore, da Il Selvaggio a Fronte del Porto) e che non a caso termina quando termina la sua storia (che eleganza, nel disfarsi della gomma da masticare, perché ogni cosa nel mondo ha un suo posto) lasciando Jeanne con le conseguenze dell’uragano che entrando nella sua vita l’ha cambiata da cima a fondo.
Un po’ come Bertolucci ha fatto con Ultimo Tango a Parigi.