Cargo di Yolanda Ramke e Ben Howling | Recensione
Pubblicato il 20 Maggio 2018 alle 15:00
Martin Freeman è il protagonista di questo horror post-apocalittico distribuito da Netflix.
Esattamente come l’horror canadese I Famelici di Robin Aubert, il maggior pregio dell’australiano Cargo è quello di aver saputo immaginare una metafora intelligente e stimolante per reinterpretare la figura del morto vivente e contemporaneamente parlarci della nostra società, della direzione in cui stiamo andando e delle cose che stiamo lasciando dietro di noi.
Se nel suo film il regista del Quebec ci raccontava di questi zombie malinconici, che si affaccendavano come potevano per venerare i ricordi della loro vita precedente – erigendo trascendenti totem fatti di cianfrusaglie, e noi credevamo a quello strano culto morboso e inquietante perché tutto il film assumeva un’atmosfera onirica, trasognata, surreale – qui la coppia di registi Yolanda Ramke e Ben Howling (la Ramke ha anche scritto la sceneggiatura) utilizzano la vicenda di Andy (Martin Freeman, sempre più tendente all’horror dopo Ghost Stories) per mettere in scena un’interessante parabola ecologista che affonda le sue radici (letteralmente) nella cultura aborigena.
Questi morti viventi che, corrotti dal virus che sta devastando l’Australia, nel momento del trapasso iniziano un processo di ricongiungimento con la Madre-Terra, fioriscono invece di appassire (un po’ come accadeva in Annientamento di Alex Garland), scavano solchi nel terreno per entrare in connessione con una spiritualità nuova, un senso di appartenenza (ultra)terreno che in vita avevano dimenticato.
Non è un caso che gli unici ad aver trovato un modo per sopravvivere e quindi un posto in questo nuovo mondo siano gli aborigeni, la cui cultura li lega indissolubilmente a quei territori: la generazione attuale (quella del protagonista) potrebbe non essere più in tempo per riscoprire un alternativo stile di vita, troppo radicato nel passato, ma forse c’è ancora speranza per i più giovani. E in questo senso il film propone bene un personaggio principale dal destino ineluttabile, concentrandosi con una certa astuzia non sul “se riuscirà a sopravvivere” quanto sul “quanto riuscirà a sopravvivere”, quanto riuscirà ad andare avanti per dare una speranza di sopravvivenza alla figlia (inquadrata benissimo dai registi: chiaramente una bimba così piccola non è in grado di recitare, ma la Ramke e Howling sono bravissimi nel coglierne i gesti naturali e le movenze per adattarli ai momenti del film, soprattutto nel finale).
Muovendosi fra The Road di John Hillcoat (ma senza quella miscela incredibile fra dolcezza e pessimismo truce, cinico e spietato) e Train to Busan di Yeon Sang-ho (ma privo dell’equilibrio perfettamente bilanciato di comicità, horror e drammaticità), Cargo sembra molto più interessato a raccontare la sua metafora, a spiegarla attraverso le immagini e il contesto all’interno delle quali sono inserite (i suggestivi panorami dell’outback australiano), piuttosto che raccontare la storia del suo protagonista, che diventa il mezzo attraverso il quale i due registi (che avevano entrambi lavorato nella seconda unità di Jungle di Greg McLean con Daniel Radcliffe) possono parlarci di un tema evidentemente a loro molto caro.
E’ un film delicato, soffuso, a volte dolce, ma nel suo voler essere romantico e crepuscolare diventa un po’ troppo chiuso, procedendo come se avesse i paraocchi, veicolando tutto se stesso verso quello che vuole dirci senza darci il tempo o l’opportunità di affezionarci ai personaggi. Una buona opera, ma della quale ci dimenticheremo facilmente.