Dogman di Matteo Garrone | Recensione

Pubblicato il 18 Maggio 2018 alle 15:00

Ad un giorno dalla premiere mondiale del Festival di Cannes, arriva in Italia il nuovo film di Matteo Garrone.

In un quartiere periferico sul litorale romano fatto di campetti da calcio, palazzine decadenti, stradine dissestate e pianure sabbiose, Matteo Garrone mette in scena un fatto di cronaca del 1988 spogliandolo di tutti i dettagli superficiali, i riferimenti giornalistici e la concretezza del reale, lo inserisce in un contesto atemporale trascendente e se ne serve per raccontare una favola nerissima sull’oscura complessità degli abissi in cui va ad affogare la dignità umana.

Al centro del film – che tratta temi universali, temi in cui ogni spettatore sarà in grado di riconoscersi; è questa la potenza del vero cinema – un uomo semplice, un uomo comune, dal volto sgraziato ma dalla vita aggraziata, una vita divisa fra l’amore per la figlia e l’amore per i suoi cani (è il proprietario di un negozio di toilettatura per cani, di cui va più che fiero). Amichevole con tutti e da tutti ben voluto, Marcello (interpretato dall’attore non professionista Marcello Fonte) vive un’esistenza piena di contraddizioni all’interno di un contesto sociale estremamente contraddittorio: un quartiere surreale, al di là del tempo, un 1988 con i computer e i televisori al plasma, palesemente debitore – da un punto di vista visivo e pittorico (Garrone era un pittore) – ai paesaggi western, o a quelli post-apocalittici di Mad Max, o perfino alla Coney Island de I Guerrieri della Notte di Walter Hill.

E’ un limbo metafisico, una realtà sospesa sull’irrealtà, un mondo che sembra il nostro ma che forse non lo è (oppure si), un purgatorio nel quale per i personaggi che lo abitano si alternano costantemente gioie e dolori. Un purgatorio governato da un diavolo, un diavolo ingestibile, inarrestabile, padrone di ogni cosa, di ogni vita e di ogni destino.

Garrone, all’interno di un film senza intreccio – figlio diretto de L’Imbalsamatore e mezzo parente di Gomorra, praticamente agli antipodi cinematografici rispetto all’ultimo Il Racconto dei Racconti – imbastisce la storia sul racconto di come una vita (quella del protagonista) venga costantemente e inevitabilmente trascinata da un’altra (quella dell’antagonista) verso l’unica fine possibile. Non c’è bisogno di creare suspance con l’intreccio narrativo perché è il contesto a stabilire la piega che prenderà il racconto (e in questo il film vanta uno spirito da tragedia greca, nella quale il destino dei personaggi è implicitamente segnato) e quindi il regista può concentrarsi su un altro tipo di intreccio, quello delle vite di protagonista e antagonista, simboli rispettivamente di tenerezza e violenza, che per quanto diversi l’uno dall’altro non possono fare a meno di cercarsi, di incontrarsi, di mescolarsi e infine annullarsi a vicenda.

Non avevamo ancora visto un Matteo Garrone alle prese con le gentilezze di cui è capace l’uomo: finora il regista romano aveva sempre avuto a che fare con la durezza e sempre l’aveva espressa con film duri, spietati, che così sapientemente si sposavano coi suoi toni e col suo stile. Dogman è qualcosa di più. E’ un’apertura nei confronti del lato tenero dell’anima umana, quel lato che è in tutti noi sempre e comunque e che nonostante sia vivo e pulsante per emergere – o sopravvivere – deve costantemente rivaleggiare col suo rovescio, col suo opposto: quello brutale, feroce, animalesco.

A volte gli tiene testa. Altre volte no.

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