Avengers: Infinity War – anima, tempo, mente, spazio, potere e realtà
Pubblicato il 27 Aprile 2018 alle 14:00
Esce in Italia il nuovo, epocale capitolo del Marvel Cinematic Universe.
Esattamente il giorno dopo l’uscita di Loro, in Italia tornano loro: gli Avengers, gli eroi più potenti della Terra.
E insieme a loro, per la prima volta, anche altri loro: i Guardiani della Galassia, Doctor Strange, Spider-Man, Black Panther, Bucky. E oltre a loro, proprio come nel film Loro, c’è anche Lui: non Silvio Berlusconi ma un altro titano imponente, Thanos. In confronto al quale forse gli eroi più potenti della Terra non sembrano poi così potenti.
Diciannovesimo film dell’operazione cinematografica commerciale più geniale e avveniristica di tutti i tempi, Avengers: Infinity War di Anthony e Joe Russo è un capolavoro pop di proporzioni epiche: il film, epilogo dei primi dieci anni del Marvel Cinematic Universe, riesce a sembrare non la diretta conseguenza del successo dei diciotto capitoli che l’hanno preceduto, ma la linea del traguardo di quei capitoli, come se non fosse stato semplicemente orchestrato e poi assemblato strada facendo, ma come se già dai tempi del primo Iron Man di Jon Favreau in casa Marvel sapevano dove volevano andare a parare. E volevano arrivare qui: all’Infinito.
Infinito nel senso che non c’è fine. Perché, naturalmente, the show must go on.
E a dirla tutta non c’è neppure un inizio, vista la partenza fotonica in medias res che si ricollega direttamente all’epilogo di Thor: Ragnarok (d’altronde il treno Marvel è partito da un pezzo, e se salite a bordo soltanto alla diciannovesima fermata la colpa non è di nessuno se non vostra) e che stabilisce immediatamente i toni (ci sarà un solo Tony, ma che Tony) del film: e indovinate un po’ che film è Infinity War.
Tra Le Due Torri e L’Impero Colpisce Ancora, il film è un film sul sacrificio (perché l’epica si raggiunge con la tragedia), sui prezzi che bisogna pagare per riuscire ad ottenere quello che si è sempre desiderato. C’è chi è disposto a compiere quel sacrificio, chi non è pronto, chi vorrebbe essere pronto e chi invece deve guadagnarsi il diritto di essere pronto. E’ un film sul dolore, sulla perdita, un film sull’amore.
Un film sull’anima, sul tempo, sulla mente, sullo spazio, sul potere e sulla realtà. E questi ultimi sei elementi non sono soltanto i nomi delle Gemme dell’Infinito, ma i tratti fondamentali di un film epocale, che fra trent’anni sarà ricordato come lo zenit di un intero genere.
Si ride, si sgranano gli occhi per lo stupore, si tirano sospiri di sollievo, altri di tensione, ci si emoziona, si piange: in due ore e quarantanove minuti di cinema d’intrattenimento semplicemente perfetto, i fratelli Russo compiono un lavoro senza precedenti amministrando un roster di personaggi a dir poco spropositato all’interno di una sceneggiatura esemplare, che sviluppandosi in quattro archi narrativi distinti ma collegatissimi conferisce ad ogni singolo protagonista il proprio spazio di manovra, mentre contemporaneamente gioca e missa tantissime sfumature e gradi di commedia diversi, talmente diversi che è anche solo difficile riuscire ad immaginarli tutti insieme nello stesso film, figuriamoci a farli funzionare: l’amalgama invece è così riuscita da far sembrare banale il lavoro di progettazione che c’è dietro, che invece è abnorme e di precisione millimetrica.
Le genialate, poi, non si contano.
A livello drammaturgico si gioca con le aspettative del pubblico (Hulk troppo spaventato per venire fuori), avremo colpi di scena sorprendenti (sorprendenti a livello Game of Thrones) e un cattivo profondamente caratterizzato. Del resto Thanos è l’unico personaggio che dovevamo imparare a conoscere, e il film si concentra molto sul tratteggiare la sua personalità, la sua etica morale, per niente scontata anzi addirittura condivisibile, per certi versi. Ottima, inoltre, la performance capture di Josh Brolin: sembra una sparata esagerata letta così nero su bianco, ma il suo cattivo a tratti ruba la scena ai buoni.
A livello visivo, al di là della spettacolarizzazione di un universo sempre più espanso (sempre più ad ambientazione spaziale, dopo il dittico sui Guardiani e Ragnarok … e il film su Captain Marvel che arriverà a l’anno prossimo), c’è da sottolineare l’uso di un gesto – il cinema è un’arte gestuale – che viene reiterato nel corso di tutta la pellicola e a livello inconscio avverte lo spettatore, lo mette in guardia, associando quel singolo gesto (che passerà alla storia, vedrete) ad un certo grado di pericolosità, di minaccia.
A livello produttivo c’è una sapienza solidissima dalla quale tutti gli altri studios hollywoodiani dovrebbero imparare (l’idea di far scontare Tony e Doctor Strange e metterne in risalto le differenze, dopo che lo stand-alone su Doctor Strange è stato accusato di essere la brutta copia con la magia di quello di Iron Man, non l’ho solo capita ma mi ha fatto andare fuori di testa), talmente abbagliante da rendere trascurabili i pochi difetti dell’opera, risibili se confrontati con la mole di coraggio e scaltrezza necessaria per realizzare un evento così imponente, che riesce nella missione più difficile: essere all’altezza di se stesso e dell’attesa che si era generata in un processo creativo durato dieci anni.
Esiste un cinema più totalizzante e necessario di questo?