Akira di Katsuhiro Ōtomo: patrimonio cinematografico dall’eredità smisurata

Pubblicato il 17 Aprile 2018 alle 14:00

Per festeggiare i trent’anni dall’uscita originale, il 18 aprile Akira torna al cinema grazie a Nexo Digital.

1988. Un anno così importante per l’animazione giapponese che ancora oggi, nel 2018, trent’anni dopo, guardiamo indietro ad esso con un misto di nostalgia e ossequio. Perché oggi, nel 2018, trent’anni dopo, quel 1988 è lecito considerarlo come punto di riferimento imprescindibile per il cinema mondiale, come linea di partenza di un qualcosa che oggi è parte integrante della cultura pop mondiale.

Ma andiamo con ordine.

Due anni prima, nel 1986, Hayao Miyazaki e Isao Takahata avevano fondato lo Studio Ghibli, che si mostrava al mondo col suo primo lungometraggio ufficiale, Laputa – Il Castello nel Cielo, di Miyazaki. Nel tentativo di bissare quel trionfo, Takahata scrisse e diresse quello che si sarebbe incastonato nella storia del cinema come uno dei migliori film d’animazione di sempre, nonché come uno dei più commoventi film di guerra mai realizzati: La Tomba delle Lucciole. 1988.  (“Una grande vasca da bagno”: ancora oggi, a riguardarlo vengono brividi e lacrime).

Comunque.

Se il capolavoro di Isao Takahata (recentemente scomparso e che abbiamo voluto salutare con questo breve preambolo) fu in grado di sdoganare il concetto di film d’animazione, che da allora fu impossibile considerare solo come intrattenimento per bambini, esattamente nello stesso anno il confine che La Tomba delle Lucciole aveva contribuito a spostare fu spinto un po’ più in là da un altro film ancora più ambizioso, il cui obiettivo non era quello di raccontare la tragica realtà del passato nipponico quanto piuttosto quello di provare ad immaginarne il futuro. Quel futuro era Akira.

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Volendo ripercorrere l’albero genealogico della fantascienza adulta moderna fino alle sue radici, si noterebbe come i primi germogli di quello che sarebbe stato furono piantati nel fertile terreno dell’immaginario collettivo mondiale attraverso poche ma indiscutibilmente seminali spore: e grazie alle sue innovazioni tecniche (fu necessario sviluppare una casa di produzione apposita per la sua realizzazione), alla sua potenza visiva (a livello di immagini e composizione dell’inquadratura verrà citato ripetutamente) e alla profondità della narrazione (così stratificata da offrire numerose chiavi di lettura) Akira di Katsuhiro Ōtomo è da considerarsi per importanza e risonanza al pari di Metropolis, Odissea nello Spazio, Alien e Blade Runner. 

Lo sguardo rivolto al passato de La Tomba delle Lucciole in Akira diventa l’inquadratura iniziale: in un’immagine silenziosa spiazzante e sconvolgente come poche altre, Tokyo viene spazzata via da un’esplosione nucleare il 16 luglio del 1988, data che coincide con la conclusione di una fantomatica terza guerra mondiale. La storia inizia trentuno anni dopo, nel 2019, quando Neo Tokyo, una metropoli che sorge nei pressi del gigantesco cratere della vecchia Tokyo, è governata dal caos imposto delle anarchiche gang di motociclisti che notte e giorno si sfidano all’ultimo sangue per il controllo dei territori. Inoltre, nel groviglio labirintico di strade serpeggianti fra i giganteschi e coloratissimi grattacieli dello skyline urbano, si avvicendano terroristi rivoluzionari e agenzie governative segrete, gruppi paramilitari violentissimi, profeti da marciapiede e cultori di neonate pseudo-religioni basate sulla speranza della rivelazione di un nuovo Messia destinato a debellare per sempre le piaghe sociali che appestano la disperata popolazione.

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Akira parte dal presupposto di essere un racconto estremamente metaforico sulla paura dell’atomica (che ha segnato profondamente l’essenza della cultura giapponese) e il riscatto sociale, ma nel corso dei suoi 125 minuti finisce per sgorgare come un fiume in piena e straripare nei mari della filosofia e del misticismo, ergendosi ad’aspra critica dei valori perduti di una società decadente e contemporaneamente facendosi analisi umanista delle dinamiche dell’esistenza.

Attraverso una regia inventiva ma mai ingombrante, Ōtomo alterna sequenze adrenaliniche e iper-cinetiche (gli inseguimenti in moto) a momenti brutali (la scena dello stupro), mescolando epicità ed emotività con atmosfere profondamente inquietanti e visionarie che immergono lo spettatore in un mondo selvaggio e privo di istituzioni, orgoglio e moralità. La domanda che l’opera pone è: se l’apocalisse è già avvenuta, che fine fa l’etica dell’uomo?

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La complessa sceneggiatura fiume di questo racconto corale fatto di sotto-trame e digressioni mette in relazione l’incompiutezza umana alla perfezione di Dio: neppure col raggiungimento di un potere divino l’imperfezione umana può sperare di ambire a quella compiutezza ideale, perché nelle mani dei mortali un potere immortale non farebbe che sfuggire irrimediabilmente al controllo e causare danni catastrofici e inimmaginabili.

La metafora sul progresso scientifico incontrollabile e lo sviluppo nucleare è inequivocabile e pregnante, ma il film travalica la sua essenza provocatoria e satirica per approdare nel metafisico, quando l’espediente del deus ex machina consente un finale surreale e creazionista che cita quello di 2001: Odissea nello Spazio e che, analizzato in retrospettiva, assume una forte valenza meta-narrativa: il nuovo Big Bang generato da Tetsuo dà vita ad un nuovo universo, esattamente come Akira ha dato il là alla fantascienza che è venuta dopo.

Per questo, dopo trent’anni, siamo ancora qui a celebrare l’eredità di un film che è da considerarsi fra i più belli e intellettualmente stimolanti della storia del cinema.

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