Pacific Rim: La Rivolta | Recensione
Pubblicato il 23 Marzo 2018 alle 15:00
Il generale Stacker Pentecost ha dato la vita per assicurare la vittoria degli Jaeger, i robot da combattimento dei Pan Pacific Defense Corps, contro i mostruosi Kaiju e la chiusura della breccia interdimensionale che permette alle devastanti creature di giungere nel nostro mondo. Jake, figlio del generale, ha abbandonato l’addestramento rinunciando di seguire le orme paterne e si guadagna da vivere vendendo al mercato nero componenti di Jaeger distrutti. Sarà costretto ad arruolarsi per affrontare una nuova minaccia, affiancato dal pilota rivale Lambert e dalla giovanissima hacker Amara.
Un bambino dall’immaginazione potentissima decide di prestare i suoi giocattoli ad un amichetto meno fantasioso che si limita a far combattere quei mostri e quei robot senza sforzarsi di creargli intorno un mondo affascinante o una storia avvincente. Si potrebbe riassumere così il passaggio di testimone da Guillermo del Toro, regista di Pacific Rim, a Steven S. DeKnight, scelto per dirigere il sequel. La gestazione di Pacific Rim: La Rivolta, titolo italiano davvero forzoso e poco azzeccato (difficile capire se bisogna prendersela con Hollywood che continua banalmente ad inserire il verbo “to rise” nei titoli o con gli italiani che non sanno come tradurlo), è stata piuttosto travagliata.
Cinque anni fa, del Toro aveva esaudito il sogno di ogni nerd, a partire dal suo, rendendo un sontuoso omaggio all’immaginario nipponico di robottoni che usano transatlantici per pestare i kaiju tra le insegne al neon di Tokyo. Eppure lo sbalorditivo spettacolo visivo non era bastato per garantire un immediato riscontro soddisfacente al box-office. Decisivo in chiave sequel è stato il successo nell’ormai fondamentale mercato cinese che ha messo il suo timbro produttivo sul secondo episodio, evidente anche in alcuni elementi della trama.
Quaranta milioni di dollari di budget in meno rispetto al primo episodio, il regista messicano passa la mano preferendo La Forma dell’Acqua che gli frutta Oscar, Golden Globe e Leone d’Oro, il protagonista Charlie Hunnam lascia la produzione per impegni concomitanti, il generale Pentecost di Idris Elba è troppo morto per una di quelle resurrezioni hollywoodiane che sfidano la sospensione dell’incredulità e viene preso John Boyega, quello della nuova trilogia di Star Wars, a interpretare Jake, il figlio scapestrato. Curiosamente, Jake si occupa di recuperare e rivendere rottami, proprio come Rey all’inizio de Il Risveglio della Forza.
Ci sono voluti ben quattro sceneggiatori per la sua back-story, impacchettata come quella della hacker Amara, nel tentativo di dare ai due personaggi un briciolo di profondità. Il pilota tutto d’un pezzo interpretato da Scott Eastwood, invece, non ne ha alcuna e funge solo da contraltare dicotomico a Jake in veste di suo copilota. La trama è un puro pretesto per mettere prima robot contro robot e poi robot contro il nuovo kaiju al nandrolone. I combattimenti si svolgono di giorno sostenuti da effetti visivi di buona fattura seppur lontani dallo stato dell’arte del primo episodio. A parte il nuovo design aerodinamico, gli Jaeger delle Nazioni Unite non denotano upgrade fantatecnologici di rilievo mentre quelli taroccati cinesi sono pilotati a distanza e ibridati con cellule clonate di Kaiju o una supercazzola del genere.
DeKnight, che ha alle spalle solo regie televisive, si limita all’essenziale e il talento visionario di del Toro è totalmente assente. Il film è carente di stile e di atmosfera, l’occhio registico non è più spalancato dal sense of wonder ma si limita a seguire l’azione, la fotografia diviene piatta e realistica perdendo la paletta psichedelica del prototipo, gli scienziati Geiszler e Gottlieb non fungono più da elemento comico ma sono prettamente funzionali alla narrazione, non c’è l’elemento grottesco-fumettistico che era fornito da Ron Perlman e manca anche il gusto perverso di infilare le dita negli organismi gelatinosi, traslucidi e tentacolari dei kaiju. Lorne Balfe si limita a rispolverare il tema composto da Ramin Djawadi per dare un crescendo epico nella parte finale della storia.
Tutto sommato, lo spettacolo fornito dalle scene di combattimento è sufficiente a tenere in piedi il film ma, se tutto si riduce solo a sganassoni robotici e ad un catastrofismo al quale non si fa neanche più caso, tanto varrebbe guardarsi un Transformers qualunque, diretto sicuramente meglio da Michael Bay. Dopo Tomb Raider, siamo già al secondo film che piazza una scena prima dei titoli di coda, anziché durante o dopo, per agganciarsi al terzo capitolo. Stavolta, però, sarà meglio che del Toro presti i suoi giocattoli a qualcuno che abbia una visione più ispirata e immaginifica.