Un Sogno Chiamato Florida di Sean Baker | Recensione

Pubblicato il 21 Marzo 2018 alle 20:00

Sean Baker diverte e commuove con un’ode alla magia dell’infanzia in Un Sogno Chiamato Florida, in tutte le sale italiane dal 22 marzo.

Recentemente abbiamo avuto tutta una serie di film legati al filone delle vacanze estive.

Se con Chiamami Col Tuo Nome Luca Guadagnino ci ha raccontato le ansie dell’adolescenza e le scoperte (sentimentali e fisiche) che caratterizzano quella determinata fascia d’età, Andy Muschietti qualche mese prima col suo remake di It aveva parlato di un altro tipo di estate e di un altro tipo di età della vita, quel momento preciso in cui si smette di essere bambini e si inizia a diventare ragazzi (i membri del Club dei Perdenti, nella Derry degli anni ’80, sono costretti a lasciarsi alle spalle la propria innocenza fanciullesca e trasformarsi in piccoli adulti per sconfiggere il demone-clown Pennywise).

In Un Sogno Chiamato Florida, invece, Sean Baker va ancora più indietro: sempre all’interno del microcosmo estivo (per i bambini considerata alla stregua di una dimensione parallela nella quale i doveri non esistono e l’unica cosa che conta è impiegare il tempo per divertirsi), il regista di Summit, New Jersey sceglie di descriverci l’infanzia vera e propria attraverso uno spunto interessante, quello cioè di prendere lo sguardo incantato dei piccoli protagonisti e trapiantarlo in un contesto assolutamente disincantato. E il film trionfa proprio per la sua capacità di dipingere il crudo realismo del mondo degli adulti – che è anche terribilmente inquietante: basti pensare alla scena del pedofilo, che sembra uscita da It Follows – visto attraverso gli occhi di una bambina di sei anni e i suoi amici coetanei, impegnati esclusivamente a divertirsi come possono nella precarietà di Kissimmee, Florida.

Nell’ennesimo successo targato A24 (che si dimostra ancora una volta la casa di produzione più interessante del panorama indipendente nord-americano)Tutto sembra una favola, tutto viene raccontato con i toni della commedia fanciullesca (non a caso il motel in cui è ambientato il film è chiamato Magic Castle, con le sue pareti rosa shocking fuori dal mondo, e che sorge addirittura nei pressi di Disneyworld, una meta verso la quale la piccola protagonista guarda con occhi sognanti ma che forse è irraggiungibile per le scarse possibilità economiche di sua madre), ma soltanto perché i bambini al centro del racconto sanno farsi bastare quello che hanno non avendo l’età giusta per rendersi conto di tutto quello che gli manca. Lo spettatore comprende quanto siano tristi le condizioni di vita di Moonee e dei suoi amici, quanto sia difficile per Halley prendersi cura di sua figlia, e Baker gioca con assoluta maestria con i sentimenti del pubblico.

C’è il grandissimo Willem Dafoe nel ruolo del gestore tutto fare del motel, c’è la fotografia sognante di Alexis Zabe, ma soprattutto c’è la regia di un grande regista umanista che ci trascina in questo mondo mostrandoci la lenta e ripetitiva quotidianità di un’estate apparentemente infinita, nella quale però i bambini, nonostante tutto, sono comunque in grado di trovare la felicità.

E’ davvero difficile parlare del film e della sua visione meravigliosa e al tempo stesso cruda senza farlo sembrare sentimentale o sdolcinato. Come per Chiron di Moonlight o Lee di Manchester by the Sea, Un Sogno Chiamato Florida ci porta nella vita della protagonista costringendoci a vederne ogni aspetto, al punto che, dopo la visione del film, ci sembrerà di aver trascorso del tempo con delle persone in carne ed ossa, e non con dei personaggi cinematografici. Solo i grandi film riescono a fare cose del genere. E Un Sogno Chiamato Florida è un grande film.

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