Ready Player One | Recensione in anteprima
Pubblicato il 27 Marzo 2018 alle 10:00
Anno 2045, la Terra è un pianeta sovrappopolato e inquinato. L’umanità preferisce rifugiarsi nel mondo virtuale di OASIS dove gli utenti possono condurre l’esistenza che vogliono. James Halliday, eccentrico e geniale creatore di OASIS, muore lasciando la sua fortuna al vincitore del Gioco di Anorak, una competizione in tre round volta a scovare il suo degno erede. Wade Watts, un giovane di Columbus esperto di cultura nerd, si cimenta nella sfida coadiuvato dei suoi compagni, gli Altissimi Cinque, e dalla coraggiosa Art3mis. Dovranno vedersela con i giocatori impiegati dalla multinazionale IOI, guidata dal disonesto Nolan Sorrento.
Steven Spielberg è il settantunenne più giovane di Hollywood. Esce nelle sale con due film in meno di tre mesi confermandosi ancora capace di saltare con disinvoltura dalla docu-fiction all’opera d’intrattenimento, dicotomia che lo ha sempre contraddistinto. Si è aggiudicato l’ennesima nomination all’Oscar per The Post, affrontando con lungimiranza temi attuali quali la libertà di stampa e l’emancipazione femminile, e rivendica il suo ruolo come uno dei padri fondatori della cultura nerd anni ’80 portando sul grande schermo Ready Player One, romanzo d’esordio di Ernest Cline, manifesto e canto d’amore per quei fenomeni popolari. Uscito nel 2011, il best-seller ha fatto da apripista alle ondate di nostalgia che si sono abbattute come uno tsunami sul mondo dell’intrattenimento degli ultimi anni.
Assolutamente indispensabile per la riuscita della trasposizione sono i brand che compongono il mare di citazioni del racconto. Spielberg ha dovuto piegarsi alle logiche commerciali per aggiudicarsi le licenze in questione ed è poi sfuggito alle meccaniche stesse dei rispettivi universi narrativi. Pensate al prologo di Toy Story 3, quando il piccolo Andy usa Woody, Buzz Lightyear, Mr. Potato-Head e altri giocattoli di brand diversi per creare un’unica avventura. Alla mente creativa di un bambino, priva di qualsivoglia barriera creativa, non interessa se quei personaggi appartengono a mondi diversi. E’ lui il dio della sua storia ed è lui a farne le regole. Dallo stesso principio partiva il bellissimo LEGO – Il Film. Qui Spielberg fa la stessa cosa.
La Legendary possiede il Monsterverse di King Kong e Godzilla e il franchise Pacific Rim e si sta facendo problemi ad unire questi due universi. Spielberg, invece, mette Gundam contro il MechaGodzilla, fa combattere le Tartarughe Ninja accanto a Freddy Krueger, mette in gara la Batmobile contro la moto di Kaneda da Akira e la DeLorean di Ritorno al Futuro cercando di sfuggire a King Kong e al Rex di Jurassic Park. Qualcuno ha qualcosa da ridire? No, perché è tutto tremendamente divertente e dimostra come certe logiche commerciali siano limitanti per la libertà creativa degli autori.
Attenzione però a non fermarsi sull’epidermide citazionista del film. E’ divertente cercare in giro per lo schermo le icone pop a noi care ma si tratta semplicemente del dito con cui Spielberg vi sta indicando la luna. Proprio come il Gioco di Anorak ha bisogno di tre chiavi per accedere al tesoro finale, così il film ha più livelli di decodificazione.
In superficie si tratta di una vicenda dalla struttura piuttosto semplice che contiene un messaggio retorico sul rapporto spersonalizzante coi social media diretto soprattutto ai più giovani. Spielberg traduce gli enigmi del romanzo, Codice da Vinci per nerd, in tre scene action memorabili. Nella corsa iniziale e nella battaglia finale si diverte coi giocattoli, costruisce delle sequenze pazzesche e mastodontiche, spinge l’acceleratore su tutte le tecnologie a sua disposizione, sfreccia e vola con la macchina da presa nell’immaginifico mondo virtuale inanellando gag come neanche nel più ispirato Indiana Jones.
Ma è soprattutto la sequenza centrale, legata alla seconda sfida della caccia al tesoro, ad essere spiazzante e provocatoria. Spielberg prende Stanley Kubrick e lo ribalta, lo destruttura, quasi lo sbeffeggia. Non si tratta solo di un gustoso esercizio meta e di una riflessione sulle nuove tecnologie immersive cinematografiche. E’ soprattutto un gesto sovversivo e dissacrante. Il cinema di genere, nobilitato dallo sguardo d’autore, viene trasformato in puro guilty pleasure, in uno spassoso b-movie ai limiti del trash.
Tanto per non farsi mancare nulla, il regista rifila anche uno schiaffone alle major che stanno mungendo la cultura popolare nerd senza capirla fino in fondo, manovrano i registi come burattini e delegittimano il loro approccio creativo. Indicativo, in tal senso, il momento in cui il malvagio Sorrento, intenzionato ad impossessarsi di OASIS, affronta il protagonista fingendo in maniera pietosa di conoscere ed amare l’immaginario nerd. Spielberg scatena la simbolica rivolta nel grande marasma conclusivo, le creature di fiction si sollevano contro coloro che vogliono soggiogarle e sfruttarle e tornano da chi è ancora in grado di scovare sense of wonder anche in un mondo alla deriva.