L’Isola dei Cani – Isle of Dogs | Recensione in anteprima

Pubblicato il 26 Febbraio 2018 alle 15:00

Un film d’animazione che fa riscoprire il piacere e le potenzialità della stop-motion e che riesce a commuovere attraverso il rapporto fra l’uomo e il suo miglior amico animale, rendendosi denso di temi e significati.

Che il cane sia il miglior amico dell’uomo è oramai cosa risaputa e comprovata dai millemila film con i fidati amici a quattro zampe che ogni anno irrompono in tv e al cinema. Senza nulla togliere alle genuine intenzioni di ognuno di essi, quando il tema viene affrontato da un regista creativo come Wes Anderson, il risultato non può che essere diverso da tutti gli altri. Ed è proprio unico nel suo genere L’isola dei Cani (Isle of Dogs), il film che ha aperto la Berlinale 2018 e che arriverà a maggio nei cinema italiani per 20th Century Fox.

Tornando alla tecnica della stop-motion dopo Fantastic Mr. Fox (un altro film sugli animali, guarda un po’), che evidentemente si era molto divertito a realizzare, Wes Anderson punta ancora più in alto e sfrutta all’ennesima potenza la suddetta tecnica. Non solo con trovate e situazioni limite – ad un certo punto nel film vi è un trapianto di reni fatto con pupazzetti e tutto, vi basti sapere questo; ma anche e soprattutto giocando e divertendosi un mondo – lo si percepisce proprio stando seduti al posto dello spettatore – con la regia. Una regia fatta di dettagli, campi lunghi e lunghissimi, carrelli, totali, mezze figure, e tutto ciò che gli poteva venire in mente di sperimentare.

Se Pets – Vita da animali della Illumination aveva rinverdito il genere “amici a quattro zampe” trasportando uomini e cani nell’animazione, è a Frankenweenie di Tim Burton che L’isola dei Cani sembra guardare maggiormente, pur rimanendo con un’identità propria ben definita. La tecnica lì utilizzata era la stessa ed è forse nella sua intrinseca artigianalità che bisogna ricercare il potere che ha sullo spettatore l’analisi delicata, sottile eppure così efficace del rapporto fra l’uomo e il suo miglior amico animale. Al macabro e comicamente sinistro black humour di Burton, Anderson preferisce un gruppo di cani abbandonati, malridotti e – ora che non sono più domestici – disadattati, molto indie, per niente carini e coccolosi, o forse tenerissimi proprio per questo. Un film corale, con un cast di voci stellare, in cui ognuno dei simpatici animali ha una propria personalità ben definita e sviluppata nel corso del racconto.

Altro elemento originale è la scelta di ambientarlo in Giappone, la patria degli anime, ovvero dell’altro caposaldo emblema dell’artigianalità quando si parla di “cartoni animati”, nel senso proprio di “disegni che si animano”, illustrazioni che hanno un’anima che arriva fino al cuore dello spettatore. Ed è in questo incontro di molteplici lingue – giapponese, inglese, italiano per giunta – con una simpatica postilla iniziale – che L’isola dei Cani sboccia, in ogni fotogramma volto a comporre la perfetta sinfonia che è ogni sequenza in stop-motion.

Sarà forse la combinazione dei due mondi (passo uno e nipponico), ma è encomiabile la profondità nello sviscerare questo rapporto che Anderson con i compagni di una vita Roman Coppola e Jason Schwartzmann è riuscito a rappresentare. Se poi il Giappone scelto è quello di un più o meno immediato futuro, che pesca dallo young adult apocalittico ma lo condisce di isolazionismo politico, malattie indotte per poter eliminare una fetta della popolazione animale e altri stratagemmi socio-culturali, il valore narrativo di questo film sale ancora di più. Come ha detto giustamente Bill Murray, uno dei doppiatori del film, “Ci vorranno almeno una decina d’anni per comprendere questo film. Vabbè, forse otto”.

A proposito di musiche, la colonna sonora dal sapore indie – soprattutto quell’adorabile tema ricorrente – fa entrare nel mood ideale per seguire questa storia, per poi sorprendere lo spettatore. Siete pronti a entrare nel mood anche voi?

 

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