Annientamento di Alex Garland | Recensione

Pubblicato il 13 Marzo 2018 alle 15:00

Natalie Portman, Jennifer Jason Leigh, Tessa Thompson e Oscar Isaac sono i protagonisti di questo instant-cult scritto e diretto da Alex Garland.

La fantascienza del cinema occidentale del XXI secolo può essere suddivisa in due macro-branche.

C’è quella socio-politica del sudafricano/canadese Neil Blomkamp (classe ’79), che col suo trittico di opere (District 9, Elysium, Humandroid) come nessun altro ha saputo raccontare le differenze razziali e il classismo che affannano la nostra società.

Poi c’è l’altro ramo della fantascienza moderna, quello sofisticato, poetico, filosofico. Quello di Sunshine, di Non Lasciarmi, di Ex Machina. Quello di Alex Garland. E il regista londinese classe ’70 con Annientamento è tornato sulle scene dopo tre anni di assenza per ribadire il concetto.

Basato sull’omonimo romanzo di  Jeff VanderMeer, il film racconta la storia dell’esplorazione della misteriosa Area X da parte di un gruppo di biologhe capitanate da Lena (Natalie Portman): di tutti i soldati precedentemente inviati nella zona aliena solo il marito di Lena, Kane (Oscar Isaac) è riuscito a tornare indietro, ma è gravemente malato. Insieme alle sue colleghe (fra le quali spiccano la nominata al premio Oscar Jennifer Jason Leigh e la Valchiria del Marvel Universe Tessa Thompson), Lena si avventurerà nell’Area X per scoprirne i segreti e cercare una cura per suo marito.

C’è da mettere subito in chiaro che, nonostante qui la visione di Garland sia ancora più allargata e ambiziosa rispetto all’intimista Ex Machina, il talento straripante di questo straordinario autore permette ad Annientamento di arrivare a toccare vette elevatissime per il genere, vette che erano rimaste inviolate per parecchi anni: probabilmente un capolavoro, sicuramente un instant-cult, il secondo film di Alex Garland è il frutto dell’inspiegabile e irripetibile unione a tre fra il Kubrick di 2001: Odissea nello Spazio, il Coppola di Apocalypse Now e l’Andrej Tarkovskij di Solaris. Se questi tre capolavori assoluti della storia del cinema potessero partorire in qualche modo sconosciuto e alieno un figlio di celluloide, quel figlio sarebbe Annientamento.

Contemplativo, visivamente appagante (la fotografia immaginifica di Rob Hardy va di pari passo con una CGI semplicemente perfetta), profondamente oscuro (su Netflix è vietato ai minori di 14 anni), capace di alternare scenari psichedelici a composizioni artisticamente stimolanti (alberi di cristallo, mostri scheletrici, piante-uomini) passando contemporaneamente da atmosfere intellettuali a sequenze di una violenza scioccante che strizzano l’occhio al primo Alien di Ridley Scott  (il gruppo di scienziati qui è vestito in maniera identica rispetto a quelli di Alien: Covenant), Annientamento ci parla dell’essere umano, della sua dualità (torna questo tema) della sua capacità di autodistruggersi, del cuore di tenebra che si cela in ognuno di noi, e lo fa con una potenza cinematografica rarissima (l’ultimo quarto d’ora, durante il quale Garland si priva dei dialoghi e impiega soltanto il suo talento visivo, è da mozzare il fiato).

Il viaggio di Lena e compagnia verso il faro diventa anche una parabola ecologista e spirituale, nonché una riflessione sull’importanza vitale della comprensione del diverso. Altro tema fondamentale del film è il cambiamento, inteso a volte come degenerazione (cellulare, psicologica), altre volte come potenziale progresso. Tutto sta nel riuscire a concepire (e accettare) mondi/realtà/culture diverse da quella alla quale siamo abituati, al punto da credere che sia l’unica possibile.

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