Mute di Duncan Jones | Recensione
Pubblicato il 23 Febbraio 2018 alle 20:00
Duncan Jones ci porta in una Berlino riarrangiata in chiave Blade Runner per raccontarci una storia di dolore e perdita che potrebbe non interessare a nessuno, se non a Duncan Jones.
“Interessante” è la classica definizione usata come ancora di salvezza per quei progetti cinematografici che riescono magnificamente a trasmettere il sentimento del proprio autore, fallendo miseramente in tutto il resto. In questo senso Mute è assolutamente interessante: un film che esprime tutto il dolore interiore di Duncan Jones, ma che difficilmente qualcuno vorrà vedere una seconda volta.
Gli ultimi anni sono stati davvero implacabili per il regista britannico: mentre sua moglie lottava contro il cancro e suo padre David Bowie lasciava per sempre questo mondo salutandoci con un ultimo, indimenticabile album, lui vedeva il suo Warcraft annaspare al box office e prestare il fianco a numerosissime critiche da parte della stampa specializzata. Dopo l’ottimo Source Code, che seguiva il folgorante esordio nel mondo del cinema con l’opera prima Moon (uno dei migliori sci-fi del 21esimo secolo), Warcraft per Jones doveva rappresentare l’ingresso nella cerchia delle produzioni ad alto budget, ma qualcosa (più di qualcosa anzi) era andato storto.
Flashforward al 23 febbraio 2018. Netflix distribuisce Mute, l’ambizioso progetto di un ambizioso autore che vuole disperatamente la sua rivincita (Jones lavora a questo film da quindici anni). Anche stavolta, però, c’è qualcosa che non va.
Immaginato come un Blade Runner di ambientazione europea (la Berlino degli anni ’70 di David Bowie incontra la la Los Angeles del 2019 creata da Ridley Scott e dello scenografo/direttore della fotografia Jordan Cronenweth) Mute è una strana bestia idiosincratica e kafkiana che gira in tondo senza andare da nessuna parte: lo sviluppo della trama (un barista muto che deve ritrovare la sua ragazza, misteriosamente scomparsa) sembra più il pretesto per far muovere i protagonisti all’interno dei visionari set al neon, mentre le lotte interiori dei personaggi principali rispecchiano i demoni dell’autore.
Leo (Alex Skarsgard) è un uomo fuori dal tempo, un amish abbandonato a se stesso in un mondo iper-tecnologico (e questo è un dettaglio geniale, un handicap sociologico che però viene quasi sempre tralasciato da Jones, che preferisce concentrarsi sull’handicap fisico), mentre Cactus (Paul Rudd) è un genitore poco adatto ad essere un genitore (non a caso il regista ha dedicato il film al compianto padre … e alla propria bambinaia, Marion Skene). Le loro ambivalenti vicende andranno ad incastrarsi l’una con l’altra, ma il film non riesce ad amalgamarle quasi mai: l’ambivalenza si nota soprattutto nei toni con i quali le storie di Leo e Cactus vengono raccontate, toni cinematograficamente molto distanti fra loro; in pratica è come se ci fossero due film diversi che vanno a scontrarsi, uno cerca di prevaricare sull’altro, e tutto ciò risulta in un conflitto incomprensibile fra atteggiamenti ultra seriosi e situazioni fra il comico e il ridicolo.
La definizione perfetta per Mute l’ha scritta Guillermo Del Toro e la recita il personaggio di Richard Jenkins in La Forma dell’Acqua (anche lì, tra l’altro, la protagonista era muta e dimostrava una fortissima connessione con l’acqua): “A volte credo di essere nato troppo presto o troppo tardi per questo mondo”.
Ecco, esattamente come Leo, Mute è un film che sembra arrivato fuori tempo massimo. Se vuoi omaggiare Blade Runner non puoi farlo dopo Blade Runner 2049, e nemmeno uscire a pochissimi giorni da Altered Carbon (sempre su Netflix, sempre con quel look assolutamente cheap e dozzinale) o rischi di passare per la brutta copia della brutta copia di un film degli anni ’80. E questo non va bene.