Lady Bird di Greta Gerwig | Recensione
Pubblicato il 27 Febbraio 2018 alle 15:00
Arriva in Italia l’esordio cinematografico di Greta Gerwig, commedia adolescenziale candidata a 6 premi Oscar.
Non c’è nulla di sorprendente, trascendentale o indimenticabile in Lady Bird di Greta Gerwig, se non quelle valanghe di premi e nomination – dall’evidentissimo e agrodolce sapore politico – che hanno addirittura elevato questa normalissima (anche simpatica, per carità) commedia adolescenziale allo status di istantaneo capolavoro senza tempo. Forse sarebbe meglio darsi una calmata.
Fattasi un nome come attrice nel mumblecore dei primi 2000 e assidua collaboratrice di Noah Baumbach (la ricorderete in Frances Ha, per il quale ha ottenuto una nomination ai Golden Globe) la Gerwig esordisce alla regia con la storia coming-of-age di Christine “Lady Bird” McPherson, una studentessa dell’ultimo anno di liceo di Sacramento (città natale della Gerwig) che cerca in tutti i modi di scoprire se stessa così da poter iniziare a vivere la propria vita.
Il film segue Christine nell’arco che va fra la fine del liceo e i primi mesi di college, fra tremende delusioni, primi amori, la religione (frequenta una scuola cattolica), la scoperta del sesso, dell’amicizia, il capitalismo e la società (la scelta del college, e quindi il raggiungimento dei suoi sogni, dipende dal reddito familiare e suo padre ha appena perso il lavoro) e gli eterni contrasti con la figura materna: in pratica, la nostra lady bird dovrà capire come spiccare il volo e abbandonare definitivamente il nido familiare.
E’ innegabile che Lady Bird funzioni su più livelli – soprattutto dal punto di vista della ruffianeria, ripagata col successo di critica ottenuto dai puritani colleghi d’oltreoceano – ma funziona sempre e comunque nel modo più elementare, senza essere mai troppo incisivo. Non che tenti di esserlo, beninteso: siamo di fronte ad un crowd-pleasing bello e buono che, anche se vestito di tutto punto con gli abiti di un dramedy, è ben lontano dal molto più intellettuale The Meyerowitz Stories (il più recente del suo maestro Baumbach, che esaminava il rapporto genitori-figli) o dal perfetto (quasi miracoloso) equilibrio fra lacrime di risate e lacrime di agonia raggiunto da Kenneth Lonergan in Manchester by the Sea.
Al centro della camera della Gerwig le performance della giovane protagonista Saoirse Ronan (ottenne la sua prima nomination a quattordici anni col fenomenale Espiazione di Joe Wright, e da lì non si è più fermata, da Amabili Resti di Jackson al recente dramma Brooklyn di John Crowley) e di Laurie Metcalf (la madre di Sheldon in The Big Bang Theory): non è un caso che i picchi del film siano rappresentati dalle discussioni madre v figlia, che la Gerwig mette in scena con dialoghi estremamente naturali e realistici, senza lesinare sulla crudezza e/o sui verbali colpi bassi, che lasciano emergere tutta la rabbia interiore dei due personaggi.
E’ davvero improbabile che Lady Bird possa non piacere, ma è ugualmente improbabile che ce ne ricorderemo fra un paio d’anni. Il grande merito del film di Greta Gerwig è più sociale che cinematografico: senza voler mancare di rispetto a nessuno, è lampante che il nome della regista compaia nella cinquina dei Best Director per questioni che vanno al di là della mera valenza artistica dell’opera. Casomai ci sarebbe da chiedersi perché Mudbound dell’afroamericana Dee Rees (quello si che è un capolavoro) sia stato quasi totalmente ignorato dai votanti: cara Academy, non ne azzecchi una.