Tomino La Dannata Vol. 1 di Suehiro Maruo | Recensione
Pubblicato il 26 Gennaio 2018 alle 17:00
Coconino Press porta in Italia una raffinata opera ma brutale di ero guro.
Una donna, per poter riuscire a sfondare a Tokyo, lascia i suoi due figli gemelli, appena nati, alla famiglia del fratello. Tuttavia la vita si dimostra subito dura con i due bambini, dato che la famiglia dello zio umilia continuamente i due, vessandoli e umiliandoli continuamente, a partire dal nome che viene dato loro. Un giorno vengono venduti ad un impresario di un teatro per spettacoli misemono (un tipo di spettacolo particolarmente crudo che andava in voga soprattutto durante l’era Edo), il quale li porta nei quartieri dei piaceri per unirsi alla compagnia di sventurati attori, che, tuttavia, trattano bene i nuovi arrivati, facendoli sentire amati e parte di una vera famiglia.
Per chi non conoscesse Suehiro Maruo si tratta di un mangaka celebre in Giappone, esponente di quel fenomeno culturale chiamato ero guro che ha visto la sua nascita nella cultura popolare prebellica e borghese della Tokyo dell’era Taishō (nel caso di specie e generalizzando, potremmo dire gli Anni Venti del secolo scorso) che si dedicava all’esplorazione dei devianti, dei bizzarri e dei ridicoli. In questo clima nichilista, che lo storico olandese Ian Buruma mette in parallelo con la Berlino della Repubblica di Weimer in Germania, questo movimento prospera in molti campi e, pur subendo un inevitabile arresto durante il periodo bellico a causa del nazionalismo imperante, l’ero guru torna nel dopoguerra, influenzando ogni campo della cultura, dai fumetti alla musica.
L’ero guro è dunque contraddistinto da una componente erotica e da una grottesca (oltre che da una vena di nonsense); componenti che si trovano entrambi in Tomino La Dannata che dimostra di essere un perfetto esponente del genere rispettandone tutti i canoni.
Maruo infatti ci regala una descrizione accurata della Tokyo degli Anni Trenta, dunque del primo decennio dell’era Showa, in cui non disdegna di mostrare come la cultura occidentale, che era entrata per la prima volta in Giappone a seguito della Restaurazione Meiji del 1868, fosse ormai parte quotidiana della vita degli abitanti della metropoli: abbiamo così nei cinema Luci della città di Charlie Chaplin, che effettivamente fu proiettato per la prima volta il 30 gennaio 1931 a Los Angeles, presso il Los Angeles Theater. In questa Tokyo, metropoli che sembra fagocitare tutti i suoi abitanti nella monotonia quotidiana che omologa gli edochiani, esiste una isola formata dal gruppo dei freak cui si uniscono Tomino e Katan. Un gruppo che viene visto con compassione e divertimento dalla gente, ma che in realtà, a dispetto dei difetti fisici che li condannano, dimostra di essere una vera famiglia con saldi legami di affetto tra i suoi membri, almeno tra i più giovani. Ed è questo gruppo che rappresenta il primo esperimento di famiglia per i due gemelli, che si ritrovano, dunque, come fratelli un piccolo uomo scimmia, un ragazzino che ha perso la gamba per la follia della madre, la povera Elise, preda delle perversioni degli adulti. Si potrebbe quasi azzardare che Maruo tenda una linea immaginaria tra i bambini, che ancora riescono a vivere insieme felicemente, e gli adulti, che non riescono a non sentire la volontà di prevaricare il prossimo.
Non manca poi la componente sessuale, che qui è però non usata come spesso accade come momento attrattivo per il lettore, ma come elemento fondamentale della trama (da un atto sessuale, del resto, nasce questa storia), come parte fondamentale della vita di ognuno, in quanto bisogno primario dell’uomo, senza però scadere in questo caso nell’eccesso tipico del genere.
Il tratto di Maruo è all’opposto delle tematiche che lo hanno reso famoso, ma si mostra pienamente coerente con il ritmo quieto della storia: le sue linee morbide incantano per la loro pulizia, così come colpisce la costruzione delle pagine, elegante e che si richiama alla tradizione.
L’edizione italiana di Coconino Press-Fandango si dimostra all’altezza dell’opera pubblicata, con un solido volume arricchito da una carta di qualità 140 gr. La copertina, pur di cartoncino, è sufficientemente solida anche se deve essere trattata con cura. Ottima anche la scelta di non tradurre le onomatopee, lasciando l’impostazione originale delle tavole, ricorrendo a meno intrusive note a margine. Peccato però che non ci sia nessun approfondimento alla fine del volume.