Dylan Dog 377 – Non Umano | Recensione
Pubblicato il 27 Gennaio 2018 alle 10:40
L’indagatore dell’incubo alle prese con uno strano assassino.
Gennaio, il mese in cui si celebra la Giornata della Memoria. Da qualche anno a questa parte, la giornata del 27 è dedicata al ricordo delle vittime dell’olocausto: milioni di morti nelle camere a gas, di fame o in seguito a esperimenti scientifici effettuati da medici nazisti e loro alleati. Proprio in questo giorno, esce il nuovo numero della serie regolare di Dylan Dog, “Non umano”.
La storia si apre con il bell’indagatore tenebroso che ci fa conoscere la sua fiamma del mese, Tracy, una poliziotta dedita al proprio lavoro e alla sicurezza dei cittadini londinesi. Fidanzata che non riesce a godersi più del dovuto, dato che è impegnata nel risolvere il mistero di strane morti tra i vicoli della capitale. Quando anche il suo collega Frank viene fatto fuori dal suo collega assassino, si iniziano a delineare le caratteristiche del criminale. Una pista, intrisa di razzismo, collega tutte le morti; e proprio quella pista seguiranno Dylan e Rania.
Non poteva esserci periodo migliore per puntare il dito contro una delle piaghe sociali, come quella del razzismo. Decine e decine di anni sono passati da quando si sono iniziati a creare movimenti contro la supremazia della razza bianca. La Storia è già nota: l’Ottocento con l’abolizione della schiavitù in America, grazie ad Abraham Lincoln e, di contraltare nel Novecento, la Germania del Terzo Reich, stigmatizzata nella controversa figura di Adolf Hitler. Emblemi e simboli che, nella modernità, sono stati riletti, modificati e collegati a voci e urla di cui ancora oggi siamo capaci di sentire l’eco. Sopravvissuto a un ideale, il non umano risulta essere (metaforicamente) la mostruosa forma mentis che si potrebbe celare dietro ognuno di noi, in ogni dito accusatorio verso gli immigrati, verso un’altra “razza”, verso il “diverso”.
Giancarlo Marzano regala un Dylan più umano che indagatore: si ha l’impressione che stavolta il suo quinto sesto e mezzo sia più lento del sesto senso di un qualsiasi essere umano. Egli diventa spettatore di una società divisa in due parti: chi è ancora vivo e chi sta per morire per colpa di un pazzo misterioso. La narrazione si sviluppa a prescindere dalla presenza del protagonista, facendo sì che la storia stessa diventi protagonista. Non potrebbe essere altrimenti, data la forza e le peculiarità di Tracy e di un altro personaggio (di cui non faremo il nome, ma vi basti sapere che è una vecchia conoscenza di Dylan). Sorprende il legame che si viene a instaurare tra Tyron Carpenter e Dylan. Ormai risaputo che i due nutrano sentimenti astiosi l’uno per l’altro, le scene che precedono il finale presentano un lato di Carpenter che ancora non eravamo riusciti a vedere. La chiusura dell’albo è inevitabile: come il migliore dei film d’azione, vi è un’esplosione di colpi, cazzotti, pallottole e frasi a effetto.
Per la prima volta sulla serie regolare, il pittore Giulio Camagni interiorizza perfettamente le caratteristiche di base dell’indagatore dell’incubo, ricostruendo il personaggio di Sclavi come mamma Bonelli ci ha abituato finora. Carichi di espressività, i volti dei personaggi ondeggiano tra attimi di piena luce e momenti di intensa oscurità, entrambi come metafora di “sballottamento” tra realtà e orrore: quell’orrore non umano che non è solo un mostro sotto la luce del sole, ma si cela dentro la di ognuno di noi.