Good Time di Benny e Josh Safdie | Recensione

Pubblicato il 14 Gennaio 2018 alle 15:00

Dopo aver fatto incetta di nomination e premi nei maggiori festival cinematografici internazionali, in Italia il nuovo film dei fratelli Safdie arriva direttamente su Netflix.

Avevo avuto la fortuna di ammirarlo in anteprima mondiale all’ultimo Festival di Cannes il nuovo film di Benny e Josh Safdie, Good Time, e grazie a Netflix – che recentemente si è pure aggiudicata la distribuzione di Annihilation, il nuovo film di Alex Garland: il mondo del cinema sta cambiando di giorno in giorno – lo straordinario heist-movie con uno psichedelico Robert Pattinson arriva nelle case di tutti gli italiani abbonati al servizio di streaming on demand.

Connie Nikas (Robert Pattinson) è un delinquente da due soldi con la parlantina sciolta, un mucchio di cattive idee per la testa, un rapporto ambiguo con Corey (Jennifer Jason Leigh), una donna più grande di lui, e un fratello mentalmente ritardato, Nick (interpretato da uno dei due fratelli registi, Benny), a cui vuole bene ma del quale è per forza di cose costretto a prendersi cura (forse, o forse c’è qualcos’altro sotto …).

Proprio Nick finirà dentro dopo una rapina andata male e Connie, pieno di rimorsi, dovrà trovare un modo per tirarlo fuori di prigione.  Il film quindi segue il protagonista lungo una scalmanata, chiassosa e autodistruttiva notte newyorkese, nel corso della quale tutto quello che potrà andare storto andrà perfino peggio e ogni volta che cercherà di rimediare ad un suo errore non farà che peggiorare la già incredibilmente compromessa situazione.

Accompagnato da una colonna sonora spasmodica che riecheggia i temi di Vangelis rivisti in chiave tecno-elettronica (oltre il tema musicale, ci saranno altre due strizzatine al capolavoro di Ridley Scott Blade Runner, con la scena iniziale che richiama quella del test di Voight-Kampff e con le luci al neon onnipresenti), Good Time è un heist-movie esistenzialista che intrappola il personaggio principale in strettissimi primi piani e situazioni grottesche, atmosfere kafkiane, personaggi maniacali e una New York che sembra più un macabro labirinto di cemento e luci stroboscopiche che una metropoli.

Il film va avanti senza sosta come un flusso di coscienza da sperimentalismo joyciano e lo spettatore è costretto nei panni (costantemente mutevoli: ci saranno tantissimi cambi di indumenti e a un certo punto perfino di colore di capelli) di un Robert Pattinson nell’interpretazione della carriera: per quanto viscido e allucinato, è impossibile non affezionarsi a questo scapestrato dalla lingua lunga e un espediente per ogni problema, una sorta di MacGyver per le pessime situazioni.

Si potrebbe pensare ad una fortuna sfacciata, ma la sceneggiatura di Ronald Bronstein e Josh Safdie chiarisce più volte le abilità dialettiche del protagonista, apparentemente in grado di trarsi d’impaccio da qualsiasi problema: come un cane che si morde la coda, però (“In un’altra vita sono stato un cane, per questo i cani mi adorano”), ogni volta che riuscirà a superare un ostacolo si ritroverà a doverne affrontare un altro ancora peggiore del precedente, in un loop di causalità e inevitabilità.

Droghe allucinatorie, fantasmagorie e digressioni sconclusionate faranno da contorno al pasto raffinato che la coppia di registi presenta in maniera impeccabilmente elegante. Un film da festival per palati fini, che vi lascerà sazi di puro cinema.

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