Giocattoli della Nostra Infanzia Stagione 1 | Recensione

Pubblicato il 21 Maggio 2018 alle 15:00

Le menti che hanno ideato i giocattoli più famosi della storia parlano dell’ascesa, e a volte della caduta, delle loro creazioni da miliardi di dollari.

Fra tutte le sezioni e le eterogenee proposte del colosso dello streaming Netflix forse una delle sezioni più sottovalutate è quella relativa ai documentari per la quale è stata approntata questa serie intitolata I Giocattoli della Nostra Infazia: 4 documentari che, come facilmente intuibile dal titolo, parleranno della creazione di quei giocattoli che hanno spopolato negli anni ’70 ed ’80 entrando di diritto nell’immaginario pop mondiale.

Per comodità la recensione è stata divisa in quattro pagine:

Si parte ovviamente con Star Wars cavalcando l’uscita dell’ultimo capitolo cinematografico. L’intuizione da parte di George Lucas di sfruttare a livello di marketing e merchandise la sua creatura è un fatto risaputo ed incensato come una delle più grandi intuizioni ma facendo un salto negli anni ’70 scopriremo che la nascita dei giocattoli di Star Wars fu tutt’altro che semplice e come qualsiasi aspetto di questo franchise non privo di retroscena particolari.

Come i più esperti di voi sapranno storicamente i giocattoli di Star Wars furono prodotti dalla Kenner, piccola azienda dell’Ohio che scommise sulla saga di Lucas raccogliendo la sfida che le grandi compagnie di allora non vollero affrontare diventando poi di fatto una delle più grandi aziende produttrici di giocattoli di tutti gli anni ’80 fino alla metà dei ’90.

Fu una sfida perché Lucas si mosse tardissimo: a soli 6 mesi dall’uscita del primo film fu stipulato l’accordo con Kenner e all’epoca per la produzione di una linea di giocattoli occorrevano circa 12 mesi fra progettazione – tutta manuale – approvazione e produzione vera e propria. Il risultato fu grottesco con i giocattoli che uscirono con circa un anno di ritardo rispetto alla pellicola e che andarono letteralmente a ruba! Pensate solo che i film incassarono all’epoca circa 7 miliardi di dollari mentre la vendita dei giocattoli fruttò più del doppio! La Kenner arrivò a vendere anche 22 milioni di pezzi al mese!

La grande intuizione di Lucas fu supportata dall’altrettanto grande intuizione del proprietario della Kenner che vide i personaggi creati dal regista e quell’universo come “giocabili” e “giocattabili” (toyetic in inglese – NdA) cioè qualcosa che potesse essere trasformato in una linea di giochi.

La scommessa della Kenner tuttavia si basava su un accordo molto sbilanciato: l’azienda infatti avrebbe detenuto il 95% dei profitti. Questo portò a varie negoziazioni con un nuovo accordo del 1978 grazie al quale la Lucasarts avrebbe percepito ogni anno 10.000$… ma cosa successe fra un film e l’altro e soprattutto quando Lucas decise di far riposare il suo franchise?

Kenner decise di ampliare la sua linea creando appositamente dei veicoli ad esempio – i famosi mini-rig – mentre fra il 1986 ed il 1995 – i così detti anni bui – non solo la compagnia non verso il compenso dovuto a Lucas ma, ritenendo il franchise morto e sepolto, decise di venderne i diritti al colosso Hasbro in quella che è ancora oggi è stata una delle contrattazioni più dure e onerose nel mondo dei giocattoli.

Il documentario è davvero ben realizzato spaziando dagli aspetti tecnici della realizzazione delle prime action figures a quelli economico-sociali del fenomeno Star Wars attraverso alcune interessanti testimonianze compresi alcuni immancabili collezionisti i quali offrono interessanti aneddoti su pezzi rari e non. Ottima la regia che mantiene alta l’attenzione dello spettatore cercando affrontando cronologicamente la storia dei giocattoli di Star Wars ma miscelando fonti e aspetti non risultando mai stucchevole.

Il secondo episodio è tutto “al femminile” se non altro perché ha come protagonista Barbie: la bambola più proficua della storia dei giocattoli.

Associata da sempre all’idea di giocattolo “americano”, Barbie fu ideata da Ruth Handler e da suo marito Elliot, cofondatore della casa di giocattoli Mattel, coadiuvati nella progettazione della bambola dall’ingegnere Jack Ryan che fu ideatore anche delle giunture snodabili.

Nel racconto della genesi della bambola quello che colpisce è l’intuzioni della Handler che vedendo la figlia giocare con bambole di carta – ovvero semplici ritagli di cartoncino a cui potevano essere fatti indossare vari abiti – decise di realizzare una bambola che fosse “vestibile” e che si differenziasse sostanziale dai più classici bambolotti. Ispirazione per Barbie, dalla nome della figlia Barbara, fu la bambola tedesca Bild Lilli, protagonista di una strip di fumetti tedesca dai toni adulti.

Questo secondo episodio ruota soprattutto intorno all’aspetto sociale della bambola, e ai suoi inevitabili cambiamenti, senza però disdegnare uno sguardo a quello prettamente commerciale.

Per riguarda il primo aspetto vengono elencanti i cambiamenti fisici che la bambola ha attraversato fra cui i più importanti sono quello del 1972, in cui vennero modificati sguardo e lineamenti del viso, quel del 1992 in cui avvenne il così detto “do over” in cui venne rivisitata tutta la linea, e soprattutto quello del 1997 in cui vennero modificate le proporzioni del corpo e nello specifico del bacino per contrastare le accuse di propagandare una immagine che spingesse le bambine e le adolescenti verso l’anoressia.

Da un lato infatti viene rivelato che inizialmente Barbie fu progettata come le proporzioni di un manichino questo perché la prima “funzionalità” della bambola doveva essere quella di poter facilmente essere spogliata e rivistita. Nel corso degli anni però Barbie divenne anche un simbolo di un certo tipo di femminismo votato all’empowerement grazie alle molte “carriere” che intraprese grazie alle numerose linee alternative.

Per quanto riguarda il marketing, oltre la progressiva ma massiccia presenza in televisione – vera novità rispetto a molti giocattoli dell’epoca, quello che colpisce è la strategia relativamente semplice ma geniale adottata da sempre dal brand: mettere in commercio una bambola economica i cui accessori però costassero, in proporzione, molto di più. Questo ha creato una sorta di circolo che si auto-alimento, ancora oggi, di “avide” acquirenti.

Non mancano ovviamente passaggi più “scabrosi” come le battaglie legali contro il marchio Bratz – che per pochi anni scalzò Barbie dal trono delle vendite – e quelli legati alla creatrice Ruth Handler le cui pratiche commerciali non furono mai troppo limpide e che fu estromessa poi intorno alla fine degli anni ’80 dalla guida del brand.

La regia è più classicamente “documentaristica” rispetto al primo episodio ed il ritmo è meno frizzante ma in definitiva l’episodio offre un eccellente sguardo sulla genesi e lo sviluppo di uno dei giocattoli più conosciuti e riconoscibili al mondo.

Con il terzo episodio riviviamo l’ascesa di una delle linee di giocattoli più famosa degli anni ’80: He-Man and The Masters of the Universe.

L’idea alla base per la linea di He-Man nacque intorno al 1979, all’epoca infatti la Mattel non aveva una linea per maschietti dopo il declino, dovuto ai giocattoli di Star Wars, di quella con protagonista Big Jim.

Dopo una serie di incredibili fallimenti commerciali – con giocattoli basati su film divenuti poi di cult come Flash Gordon, Clash of the Titans e Battlestar Galactica – sembrò chiaro alla dirigenza che bisognasse elaborare una linea completamente originale.

Iniziarono così una serie di “studi” di marketing estremamente approfonditi: prendere un campioni di bambini dai 5 agli 8 anni e osservarli giocare. Quello che risultò subito evidente furono due cose: tutti i bambini dell’epoca erano insofferenti alle costrizioni di genitori e insegnanti, volevano il potere – frase che poi verrà riutilizzata in maniera iconica per il trionfo della linea, e che qualunque fosse il “tema” doveva essere verosimile – alla maniera di Star Wars – ma non ancora alla realtà.

Uno degli scenari che sembrò interessare maggiormente su quello heroic fantasy – sulla falsariga di quanto visto nel film Conan il Barbaro e con una estetica che si doveva rifare alla potenza visiva di Frank Franzetta – ma nella pratica fu Roger Sweet a trovare la chiave di volta per la nuova linea.

Sweet, uomo affascinato dal culturismo, penso che la nuova linea avrebbe dovuto soverchiare fisicamente gli altri giocattoli dell’epoca. Quindi prese un vecchio Big Jim e vi modellò con della creta una muscolatura ipertrofica. Con tre prototipi pronti, pur bizzarri nell’aspetto, Mattel aveva fatto centro ma bisognava affinare il design che fu affidato a Mark Taylor che curò l’aspetto delle prime otto figures compreso il villain Skeletor e il mitico Castello di Greyskull.

Quando però, nel 1982, la linea era pronta al lancio molte catene di negozi di giocattoli fecero una sagace obiezione: Star Wars vendeva perché i film permettevano di avere un background chiaro, e i He-Man?

Nacque così l’idea di allegare a ogni figure un mini-fumetto, i leggendari minicomics, con cui si iniziò a dare un background a tutta la linea. Ma un altra obiezione era dietro l’angolo: come avrebbero letto questi fumetti i più piccoli?

Risposta: erano in cantiere degli speciali animati che la Filmation si offrì di trasformare in una intera serie animata. Questo è sicuramente il momento di svolta per la linea che, pur perdendo quella serietà del concept iniziale dovendo trasformarsi in una serie in cui dovevano farsi largo umorismo e “leggerezza” per poter essere mandata in onda il sabato mattina, vide le sue vendite schizzare alle stelle superando addirittura quelle della mitica Barbie dando così il via alla linea “gemella” She-Ra and The Princess of Power.

La linea di He-Man crebbe fino a raggiungere un fatturato di circa 111 milioni di dollari nel 1984 salvo poi collassare. Una delle cause fu probabilmente la presenza di troppi personaggi secondari che finirono per sopperire alla mancanza dei personaggi principali sugli scaffali, troppa domanda e poca offerta in definitiva.

Mattel provò a rilanciare la linea con il film, divenuto poi un cult, nel 1989; con una rivisitazione sci-fi della linea nel 1992 e con una rivisitazione moderna, nel design, nel 2002 ma senza fortuna.

Oggi la linea gode ancora di una immensa popolarità grazie agli adulti che ancora avidamente collezionano i giocattoli originali e soprattutto le recenti ri-edizioni per collezionisti creata da Mattel.

La parabola di He-Man and The Masters of the Universe è di fatto lunga solo 5 anni, ma fu, senza ombra di dubbio, estremamente brillante.

Questo episodio scorre rapido con un tocco di ironia che ben si adatta alla genesi della linea, bizzarra e convulsa, ma forse indugia troppo sulle fasi di concepito dei giocattoli mentre sarebbe stato interessante approfondire un po’ di più l’aspetto collezionistico.

La riflessione più interessante è senz’altro quella legata al modello di business di cui questa linea divenne apripista: creare una linea ex-novo e poi trasformarla in serie animata e/o sfruttarne l’immagine attraverso una miriade di prodotti. L’industria dei giocattoli e quella dell’animazione anni ’80 fu viva e vitale anche e soprattutto per questa intuizione.

L’ultimo episodio di questa prima stagione è dedicato ad una linea tanto antica quanto profondamente legata al clima socio-politico degli anni ’80: G.I. Joe.

Anche la Hasbro, come la maggior parte delle compagnie produttrici di giocattoli fra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, subì il contraccolpo dell’enorme popolarità di Star Wars e della competizione della Kenner. A differenza però di altre aziende che puntarono ad imitare o creare “variazioni sul tema”, Hasbro decise di scommettere su quella che per anni era stata la sua linea maschile principale: G.I. Joe.

Stan Weston creò infatti il personaggio negli anni ’60 ispirato dal successo di Barbie. Voleva cioè creare una bambola per maschietti, ispirata dalla narrativa della Seconda Guerra Mondiale, riproducendo nei minimi dettagli uniformi e equipaggiamenti. Weston vendette, in maniera poco lungimirante per soli 100.000 $, l’idea a Don Levine e alla Hasbro. La nuova creazione presentava due problemi: il nome e la sua vendibilità. Per il nome Levine si fece ispirare da una pellicola chiamata appunto G.I. Joe mentre bisogna eliminare l’idea, dalla mente dei maschietti, che stessero giocando, di fatto, con una bambola, nacque allora il termine action figure. Adottando il modello di business di Barbie – personaggio principale economico, accessori costosi – G.I. Joe sopravvisse fino al 1978 attraversando fra le altre cose tentativi di imitazione, rivisitazioni del brand – diventà G.I. Joe Adventure Team quando la retorica della guerra divenne scomoda con il Vietnam – più o meno efficaci, una crisi petrolifera, che portò la produzione quasi ad arrestarsi, ma fisiologicamente alla fine degli anni ’70 non c’era più spazio sul mercato per quel tipo di giocattolo.

Fra il il 1978 e il ’79, Hasbro rischiava di chiudere i battenti: G.I. Joe era stato per anni la loro fonte di guadagno ma aveva anche monopolizzato ricerca e produzione. Con il cambio al vertice dell’azienda una cosa era chiara: il brand doveva essere rilanciato con un occhio alle figures più piccole che all’epoca dominavano il mercato.

Il rilancio comportava numerosi problemi: le figures non dovevano essere copie di quelle Kenner della linea Star Wars così si optò per passare dalle 5 articolazioni alle 13 del G.I. Joe originale ma rimpicciolendo la figura. Altro punto importante fu la spinta commerciale che, non avendo a disposizione film o serie televisive, fu concertata insieme alla Marvel. Con la promessa di spot pubblicitari che promuovessero il fumetto, la Casa delle Idee varò la prima serie a fumetti dei G.I. Joe suggerendo alcuni importanti “cambiamenti” uno fra tutti la nascita degli antagonisti dei Joes ovvero l’organizzazione terroristica nota come Cobra, idea dell’allora editor Archie Goodwin.

A curare la serie a fumetti fu Larry Hama che ebbe una intuizione geniale: creare una backstory per ognuno di questi personaggi che sarebbe finita sul retro dei blister come una sorta di dossier militare.

Hasbro sapeva che la spinta della serie a fumetti avrebbe avuto un tempo limitato perciò poco tempo dopo mise in cantiere la serie animata che fece decollare immediatamente le vendite e il numero di action figures – nel 1989 la linea contava ben 250 personaggi – e una infinità di veicoli fra cui il playset più grande mai realizzato la portaerei USS Flag.

Con l’ennesimo cambio alla guida della Hasbro e l’acquisizione della Kenner, la produzione dei G.I. Joe venne definitivamente chiusa nel 1994. I motivi furono meramente finanziari: spostare denaro e risorse in settori più importanti in quel momento.

Il quarto ed ultimo episodio di questa terza stagione è forse quello meno convincente. La prima parte è infatti monopolizzata dalla ricostruzione storica del brand G.I. Joe, sicuramente interessante, aspetto che però toglie spazio ad approfondimenti e curiosità sulla linea degli anni ’80 e tralasciando del tutto l’aspetto collezionistico.

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