Vi presento Christopher Robin | Recensione
Pubblicato il 9 Gennaio 2018 alle 15:15
Durante la Prima Guerra Mondiale, lo scrittore inglese A.A. Milne, detto “Blue”, presta servizio nell’esercito e combatte nella terribile battaglia della Somme. Tornato dal fronte, l’autore sposa Daphne de Sélincourt ed ha un figlio con lei, Christopher Robin, affidato alle cure della tata Olive. Tormentato dai ricordi della guerra, Blue viene lasciato dalla moglie e resta solo con il figlio. Insieme creeranno il mondo dell’orsacchiotto Winnie the Pooh.
La sanguinosa battaglia della Somme, che si svolse tra l’estate e l’inverno del 1916, è stata un evento cruciale per l’immaginario britannico generato nella prima metà del 20° secolo e rivelatosi poi seminale per la narrativa mondiale. Gli amici J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis, rispettivamente autori de Il Signore degli Anelli e de Le Cronache di Narnia, sopravvissero alla battaglia e trassero spunto dagli orrori a cui avevano assistito per scrivere le loro opere, filtrando il nichilismo della tragedia reale attraverso la lente dell’epica fantasy. Allo stesso modo, Winnie the Pooh è la risposta di Milne all’esperienza traumatica vissuta in trincea, un ritorno all’infanzia, al rassicurante abbraccio di un orsacchiotto giallo. I simpatici personaggi del Bosco dei Cento Acri sono diventati tra i più popolari della letteratura per l’infanzia, consacrati dalle trasposizioni animate della Disney (che sta preparando un altro film su Christopher Robin con Ewan McGregor e Haley Atwell).
Il rigore formale del londinese Simon Curtis, già regista dei biopic Marilyn e Woman in Gold, riflette la routine, l’austerità e la compostezza tipicamente britannica di Milne cui fa da contraltare la più giocosa e romantica moglie Daphne, dicotomia sorretta dal volto spigoloso di Domhnall Gleeson e dagli occhioni azzurri di Margot Robbie, adorabile mentre presta la voce agli animali di pezza del piccolo Christopher (e, curiosamente, interpreterà un coniglio nel prossimo Peter Rabbit, ancora con Gleeson nel ruolo del protagonista).
La catarsi terapeutica di Milne avviene attraverso la frequentazione obbligata del figlio, trascurato in precedenza. Le fossette di Will Tilston contribuiscono all’espressività di Christopher che diventa il motore emotivo della vicenda. E tutto si scalda. La tensione dei flashback bellici si allenta grazie ad una tenera comunione di fantasie fanciullesche che movimenta la sistematica quotidianità dell’autore e allieta anche il pubblico.
Il risvolto disfunzionale al rapporto tra i due è in agguato quando l’intimo parto dei loro giochi domestici viene inscatolato e venduto nella forma della celebre raccolta di racconti su Winnie the Pooh e Christopher Robin viene confuso con la sua controparte diegetica.
La fantasia irrompe nella realtà con risultati tutt’altro che romantici, scatenando il conflitto tra padre e figlio, gravato da qualche dialogo didascalico, mentre la tata Olive diviene il simbolico angelo custode dell’infanzia di Christopher. Il rigetto di uno star system già invadente e dello status di celebrità che finisce per emarginarlo, lo porta a desiderare conformismo e omologazione. In tal senso, la storia, lunga ma non prolissa, diventa circolare tornando agli orrori della guerra da cui era partita. La vicenda sfocia nel melodramma finale che diventa salvifico grazie ad un lieto fine che sanno riservare solo le fiabe.