Il Ragazzo Invisibile: Seconda Generazione | Recensione

Pubblicato il 5 Gennaio 2018 alle 15:15

Il sequel del cinecomic italiano di Gabriele Salvatores non convince e fatica a trovare un’identità che non sia malamente italiana.

Con Il Ragazzo Invisibile Gabriele Salvatores aveva sperimentato ancora una volta con i generi del cinema italiano. Aveva portato i cinecomic in Italia prima di Lo chiamavano Jeeg Robot e per giunta con un protagonista adolescente à là Spider-Man. Il tutto inserito in un progetto cross-mediale che coinvolgeva un fumetto e un romanzo che raccontavano aspetti diversi della stessa storia per renderla completa. Tutti meriti, indubbiamente, e non da poco, ma il risultato fu comunque insoddisfacente.

Il Ragazzo Invisibile: Seconda Generazione, sequel fortemente voluto dal regista partenopeo per entrare nella dimensione della “saga”, sembra migliorare (e non di poco) l’aspetto visivo ma essere carente in quello narrativo. Forse colpa di una sceneggiatura che segue un iter troppo canonico e troppo americano pur volendo essere un prodotto italiano, affidata al trio Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo e non curata dal regista, caso più unico che raro in Italia. Paradossalmente i tre si erano dimostrati più bravi nella controparte fumettistica, almeno col primo volume.

Forse colpa degli attori giovani troppo acerbi e non ancora capaci di esprimere al meglio i dilemmi interiori dei protagonisti, che si trovano tutti di fronte a scelte complesse. In primis Michele (Ludovico Girardello), ora sedicenne, cresciuto, rimasto orfano della madre adottiva ma vicino a scoprire la sua famiglia biologica, la madre (Ksenia Rappoport) e la sorella gemella accennata alla fine del primo film (Galatea Bellugi) e di cui non sapeva l’esistenza. Forse colpa di una regia che vive troppo in funzione della storia e della sceneggiatura, perdendo così di autorialità e di identità.

Se c’è una cosa per cui Il Ragazzo Invisibile: Seconda Generazione brilla sono però sicuramente gli effetti visivi di Victor Perez e della Frame by frame. Perez arriva da blockbuster americani come Il Cavaliere Oscuro, Rogue One, l’ultimo Harry Potter e quindi la sua esperienza nelle grandi produzioni si vede e si sente, sebbene il budget a disposizione sia sicuramente inferiore in questo caso. Brilla anche l’ambientazione così europea della città di Trieste e delle sue location rispetto alle più “caserecce” Roma e simili.

La sceneggiatura di Fabbri, Rampoldi e Sardo possiede la forza della serialità che viene dalla loro esperienza in In Treatment e 1992-1993, però si intoppa in alcune scelte poco felici e troppo semplicistiche. Il primo X-Men è la chiara ispirazione della storia e gli snodi narrativi son fin troppo evidenti e eccessivamente spiegati allo spettatore, quasi fosse il pubblico di Rai1 che ha bisogno costantemente di essere “guidato” alla visione. Così come i nomi degli Speciali e la loro caratterizzazione, troppo improntati sull’aspetto “cool” e meno sul rapporto dei mutanti con i propri poteri. Nel cast brillano un po’ di più l’Andrej di Ivan Franek e la Giovanna di Valeria Golino, che però si erano visti già nel primo capitolo.

Un terzo capitolo? Chissà se è bene sperarci, c’è chi parla addirittura di uno spin-off su Morfeo, ma forse la cosa migliore sarebbe trovare una nuova chiave di lettura più univoca e meno cross-mediale affinché questo cinecomic sia più italiano e meno “ammerigano”.

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