Tre Manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh | Recensione

Pubblicato il 10 Gennaio 2018 alle 15:00

Dopo aver collezionato quattro premi ai Golden Globes 2018, arriva in Italia Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, nuova fatica del geniale Martin McDonagh.

Posso dirvi fin da oggi che, quando il prossimo dicembre il mio amico e caporedattore Domenico Bottalico mi chiederà di stilare l’ormai rituale top10 dei migliori film 2018 per MangaForever, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh comparirà certamente in quella lista.

L’anticonvenzionale regista di In Bruges e 7 Psicopatici (che ha già vinto un Oscar – non molti lo ricordano – per il miglior cortometraggio con Six Shooter nel 2006) ha firmato un film eccezionalmente sopra le righe, un film di sceneggiatura dove la violenza fisica (che pure è presente, e quando c’è è molto cruda) è surclassata dalla violenza verbale: nel mondo di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, gli insulti sono armi letali che offendono e provocano e scuotono, innescando reazioni emotive e quindi conseguenze, nel contesto di un’America sonnolenta ma irascibile.

Ci si fa del male con le parole, prima che coi manganelli – ma anche quelli vengono fatti sventolare quando ne si sente la necessità – parole che non risparmiano neanche i morti, e perfino i morti avranno l’opportunità di rispondere con le proprie parole – oneste, drammatiche, commoventi – spedite direttamente dalla tomba per rincuorare o rinvigorire chi è rimasto nell’al di qua, per incoraggiarlo a resistere in un mondo probabilmente senza Dio dove le cose brutte possono accadere a chiunque e in qualunque momento senza la benché minima ragione.

Mildred Hayes (Frances McDormand) è una madre single che ha perso la figlia adolescente, stuprata e bruciata viva da qualcuno che la polizia locale non è riuscito ad assicurare alla giustizia. Decide così di affittare tre cartelloni pubblicitari in una strada di campagna appena fuori Ebbing, Missouri, e piazzare su quei cartelloni una pesante critica alla competenza professionale dello sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson). Il primo a notare i tre cartelloni sarà il vice Jason Dixon (uno straordinario Sam Rockwell, qui nel ruolo della vita: la vittoria ai Golden lo porterà quasi sicuramente agli Oscar, dove tiferemo per lui), e subito dopo di lui il resto della cittadina – una cittadina retrograda, piena di pregiudizi contro chicchessia.

Dato che Newton ci aveva visto giusto, anche in questo caso, come in ogni altro caso, è applicabile la terza legge della dinamica e i tre manifesti alle porte di Ebbing scatenano una serie di conseguenze che metteranno a soqquadro la quotidianità dell’intera comunità e nello specifico quella di Mildred, dello sceriffo Bill, del vice Jason (è suo l’arco narrativo più soddisfacente), del nano alcolizzato James (Peter Dinklage) e del pubblicitario Red (Caleb Landry Jones).

Lo stile narrativo di McDonagh, che è un mix tanto duro quanto spassoso fra Raymond Chandler, i fratelli Coen e il cinema post-tarantiniano (con una spruzzata di teatro: McDonagh ha scritto tantissimo per il teatro prima di approdare ad Hollywood) ci racconta un mondo deprimente e spietato popolato da individui che sembrano costretti ad indossare armature placcate col cinismo per resistere alla vita; sfilate quelle armature fuoriesce l’umanità, e i toni da commedia nera virano di punto in bianco verso le acque del dramma puro, caldo e commovente.

Vorrete un mondo di bene agli svitati abitanti di Ebbing, Missouri. E vorrete un mondo di bene a questo film. Perché, dopo averlo visto, sarà difficile pensare a un modo migliore di questo per iniziare un nuovo anno di cinema.

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