Bright – Recensione del film Netflix con Will Smith

Pubblicato il 23 Dicembre 2017 alle 10:00

Esseri umani e creature fantastiche cercano di vivere in pace ma la società è suddivisa in rigide gerarchie con gli elfi appartenenti all’establishment e gli orchi ghettizzati. Nel tentativo di far cessare la discriminazione, il dipartimento di polizia di Los Angeles decide di reclutare alcuni orchi tra cui Nick Jakoby che fa coppia con il veterano riluttante Scott Ward. I due sono costretti a fare fronte comune quando s’imbattono in Tikka, un elfo femmina in possesso di un’ambita bacchetta magica che permette di controllare la stregoneria.

E’ talmente palese la metafora sociopolitica alla base di Bright che non c’è nemmeno bisogno di eviscerarla ed è indicativo e simbolico che uno dei due agenti protagonisti sia un afroamericano, Will Smith, di nuovo accanto al regista David Ayer dopo il deludente Suicide Squad. I due si cimentano con il primo film Netflix ad alto budget (90 milioni di dollari) tornando al sottogenere buddy cop, già visitato con End of Watch – Tolleranza zero dal regista, e con Bad Boys e Men in Black da Smith.

Ayer non commette l’errore di propinare uno spiegone didascalico in apertura per introdurre il pubblico all’immaginifico urban fantasy creato dallo sceneggiatore Max Landis (Chronicle, Dirk Gently’s Holistic Detective, Superman: American Alien ) ma lascia parlare la camera a mano, le immagini, fedele al suo stile crudo, realistico ed esplicito, più vicino al panorama indipendente che a quello di un blockbuster.

Joel Edgerton, irriconoscibile sotto il make-up da orco dell’emarginato Nick Jakoby, mostra un’inedita verve comica nei duetti bromance con Smith in contrapposizione dicotomica con le due sorelle elfo. La fisionomia androgina di Noomi Rapace si rivela perfetta per la perfida Leilah mentre la benevola Tikka (Lucy Fry) pare introdotta solo per la necessità di un personaggio femminile ma riuscirà a diventare il motore emotivo della storia nel finale.

La prima parte procede a ritmo sostenuto delineando situazione e personaggi. L’elemento fantasy non è mai gratuito, indulgente o invadente, bensì organico ed accessorio. Poi qualcosa s’inceppa. Ayer resta senza idee, si siede su dinamiche risapute, il sottotesto è già stantio dopo mezz’ora e non trova ulteriori sviluppi. Il rovesciamento di prospettiva che aveva proposto con efficacia nel bellico Fury non gli riesce altrettanto bene nella duplice soggettiva fornita dai due protagonisti.

Non gli resta altro da fare che portare i personaggi là dove il pubblico si aspetta che arrivino, tra combattimenti corpo a corpo ben coreografati, qualche sparatoria e un inseguimento stradale spettacolare. Fin troppo edificante la glorificazione finale degli eroi-antieroi in divisa in una risoluzione buonista e semplificata.

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